Volare Alto

       Il Papa in Albania

 

Qualche mese fa, il 21 settembre, Papa Francesco ha visitato il popolo albanese,per incoraggiarlo nella fede e per riconoscere l’impegno di rispettosa convivenza e di dialogo nel quale convivono le diverse religioni. L’organizzazione è stata impeccabile, belle le celebrazioni, impressionanti il silenzio emozionato e l’esultanza spontanea con cui l’immensa folla ha accolto il Papa nella piazza di Tirana. Un’assemblea, non esclusivamente “di chiesa”, - con i cattolici e gli ortodossi anche i musulmani - che ha ascoltato attentamente le parole di Francesco, rispettando ogni altro momento del rito cattolico. Fragoroso l’applauso quando il Papa ha invitato a “volare alto”, imitando l’aquila della bandiera.
Noi abbiamo partecipato alla celebrazione eucaristica e all’incontro in cattedrale, momento, quest’ultimo, davvero commovente, soprattutto quando abbiamo ascoltato la testimonianza di don Ernest e sr Maria, religiosi perseguitati dal regime comunista.
Per tutta la lunghezza del viale principale di Tirana e sulla piazza, durante il giorno e fin dalla settimana prima hanno troneggiato grandi fotografie dei quaranta martiri uccisi dalla dittatura a motivo della fede. La chiesa che vive in Albania sta attendendo con grande gioia la conclusione del processo canonico per veder riconosciuto il patrimonio di santità rappresentato da questi nostri fratelli; quando è venuto Papa Francesco, mentre egli ripetutamente passava tra la folla dopo la Messa, abbiamo pensato che realmente non mancava nulla alla nostra Assemblea: Cristo nei cuori, il Papa, noi pellegrini sulla terra e i nostri martiri già in Paradiso. Una giornata simile, per tutti noi, è stata ricchissima di significato.
Una gioia ancora più grande è stata quella della settimana successiva, quando incontrando tanti abitanti di Shengjin, i più musulmani, abbiamo ascoltato la loro testimonianza, dopo la giornata trascorsa davanti alla televisione e, per alcuni, anche a Tirana. “E’ stato bellissimo”, “Dio ci vuole bene”, “Papa Francesco ci ha onorato”.
Siamo coscienti di avere tra le mani questo enorme dono di una reale possibilità di incontro e di dialogo con altre fedi religiose; desideriamo non sprecare questa occasione e rendere questa opportunità una concreta esperienza di fraternità.

In queste ore, qui a Shengjin, stiamo allestendo la nuova chiesa; la struttura è finita e già da domenica 26 ottobre potremo celebrare al suo interno. Ieri, a pulire, c’erano anche due donne musulmane, venute spontaneamente a vedere se c’era bisogno di aiuto. Dio è grande!
Sr Assunta, sr Fernanda, sr Gianna e sr Rosa di Shengjin (Albania)

 

Si..........

 

 

 

 

 

 

 

Scrivo guardandomi attorno; sono le cose, i fatti, i volti a chiamare le parole. Vivo in Albania ed è questa terra ad evocare pensieri e parole sul Natale, la festa della Parola diventata Carne, umanità, storia. Partirei dalla fine, come quando ci si racconta della vita tra vicini, seduti a tavola, e poi si risale la china degli anni, fino ai ricordi di quando si era bambini, con le foto appena nati, anche noi come in un presepio.
      La fine, in questa terra di martiri e persecuzioni, è una bella pala d’altare con la deposizione di Cristo dalla Croce. Si trova nella chiesa dei Francescani, a Scutari, e chi ci guida nella visita sempre osserva che “anche l’Albania ora ha smesso di soffrire”, c’è finalmente un po’ di pace, la croce ha lasciato andare questo corpo piagato e lo restituisce al riposo della terra, da cui non può che rinascere vita.
      Alla pienezza della vita ritrovata abbiamo di certo pensato il 21 settembre, giorno in cui Papa Francesco ha visitato l’Albania. Nella cattedrale di Tirana, nel pomeriggio, abbiamo condiviso con lui un ricchissimo momento di spiritualità e di intensa commozione, introdotto dalle testimonianze di due religiosi perseguitati dal regime comunista. Don Ernest Troshani, 84 anni, ha raccontato in breve il suo arresto, la
sua prigionia durata diciotto anni, di come era riuscito a scrivere sul muro della cella “per me vivere è Cristo”, per avere anche davanti agli occhi il senso della sua vita e, forse, di una imminente morte, dopo anni di torture. Dopo di lui, suor Maria Kaleta, religiosa stimmatina di 85 anni, ha testimoniato la sua gioia per la vocazione e le sue sofferenze dopo la soppressione del convento; ha conservato la fede sostenendo quella degli altri. Condannata ai lavori forzati, ha rischiato spesso la vita perché battezzava di nascosto i bambini , su richiesta delle madri.
      Entrambi hanno salutato il Papa inchinandosi davanti a lui, forse per baciargli le mani, ma è stato Francesco ad abbracciarli, a piegarsi davanti a loro, e poi si è asciugato spontaneamente le lacrime, per esclamare subito dopo “oggi abbiamo toccato i martiri!”. Nella breve omelia, durante il vespro, ci ha spiegato che si può sopportare la tribolazione soltanto perché il Signore ci consola, “ umilmente, anche nascostamente. Consola nell’intimità del cuore e consola con la fortezza”.
      La storia del popolo albanese è parabola della vita di tutti, intrisa di dolore, anche di gioia, di incerti tentativi a farsi coraggio, di provvidenziali spinte in salita, di consolanti incontri che lasciano un pensiero convincente, una parola che rassicura, su cui tornare quando c’è un attimo di pace. Morte e vita duellano sempre e noi agogniamo uno spiraglio di senso: questa è consolazione, non tanto e non solo sopportare il peso della debolezza e del male, quanto intuirne un significato, solo un frammento, un lampo transitorio che ridisegna i contorni della realtà e della storia. I santi si uniscono a Cristo e ci insegnano la fede; ci arriveremo anche noi – i briganti - , e intanto ci lasciamo portare dal “senso della solidarietà”: non amiamo la tribolazione, ma possiamo accoglierla facendo corpo con i milioni di umani attraversati dalle stesse prove o da altre più grandi. Può alzarsi la nostra preghiera per una umanità che, portando insieme i pesi, sia finalmente più forte, più attrezzata e paziente. Diremo come tutte le madri e i padri del mondo: “meglio a me che a mio figlio!”, e dalla nostra carne sarà generata altra vita.
Torniamo a parlare di nascita e quella del Figlio di Dio, il Natale, può diventare la nostra consolazione. Facendo proprio il destino umano della tribolazione, Dio assume con noi la parte più dura del vivere, le umiliazioni e le solitudini, il corpo che cede, la paura di morire, le beffe di chi era amico, l’irriderci dei nemici. Lascia da parte il suo vivere da Dio e prende parte all’oppressione di tutti, il solo che poteva non farlo.

Ci consola umilmente, già nascendo bambino.
Sr Gianna Lessio fscj

Teresa Verzeri e le Congregazioni Religiose Nell’Europa Contemporanea

Dipartimento di Scienze storiche e filologiche
Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia “Mario Romani”
– sezione di Brescia
Università Cattolica del Sacro Cuore – sede di Brescia
Istituto Figlie del Sacro Cuore di Gesù

 

Università Cattolica del Sacro Cuore - sede di Brescia, via Trieste 17 - Sala della Gloria 
Martedì 11 novembre 2014 – ore 15.00/17.00 
Tuesday November 11th 2014, 3.00 p.m.- 5.00 p.m

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PER LA GIOVENTÙ CHE “ABBIAMO FRA MANO”.
TERESA VERZERI E LE CONGREGAZIONI RELIGIOSE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA

 

FOR THE YOUTH THAT WE CARE
TERESA VERZERI AND THE RELIGIOUS CONGREGATIONS IN MODERN EUROPE

Seminario internazionale di studio in occasione della presentazione del volume di Goffredo Zanchi, La luce di Dio nell’oscurità. Teresa Verzeri: vita e opere, Città Nuova, Roma 2014

International seminar on the occasion of the pubblication of Goffredo Zanchi’s “La luce di Dio nell’oscurità. Teresa Verzeri: vita e opere” (Città Nuova, Roma 2014)

 

Chairman, Mario Taccolini, Director of the Department of Historical and Philological Sciences, Catholic University of Brescia

Welcome adress, madre Beatrice Dal Santo, Superiora generale dell’Istituto Figlie del Sacro Cuore di Gesù


Le nuove forme di vita religiosa nella prima metà dell’Ottocento in Italia
The new forms of religious life in the first half of the nineteenth century in Italy
Giancarlo Rocca, Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium

Azione sociale e ruolo ecclesiale delle congregazioni religiose in Europa nel XIX secolo
Social action and ecclesial role of religious congregations in Europe during the nineteenth century
Jan De Maeyer, Kadoc – Leuven

Teresa Verzeri: spiritualità, carità, dinamismo ecclesiale
Teresa Verzeri: spirituality, charity, ecclesial dynamism
Goffredo Zanchi, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano



Notiziario da Bangui n° 12 – 14 Ottobre 2014

 

Carissimi,

dopo più di cinque mesi dalla mia ultima lettera, eccomi di nuovo con qualche aggiornamento dal Carmel di Bangui. Se pensavate di esservi liberati dei miei notiziari – e dei nostri 6000 profughi – sono costretto a deludervi: i nostri ospiti sono ancora quasi tutti qui, attorno al convento; anzi, in questi ultimi giorni, sono addirittura leggermente aumentati.

Permettetemi, innanzitutto, di esprimere il mio più grande ringraziamento per l’attenzione con cui seguite le vicende del Centrafrica, delle nostre missioni, dei nostri giovani in formazione e dei nostri profughi. Durante il mio congedo in Italia ho potuto incontrare molti di voi. La passione, la preghiera, la generosità con cui ci accompagnate mi hanno veramente commosso. Per quanto mi riguarda, la cosa più difficile per un missionario è dire di ‘no’ davanti alla richiesta di un povero. Grazie al vostro aiuto il nostro lavoro diventa più facile, perché ci permettete di dire, ogni giorno, tanti ‘sì’. Un malato che deve subire un intervento chirurgico o che non può pagarsi le medicine, una donna che non può permettersi l’ospedale per partorire, un bambino che non ha i soldi per l’iscrizione scolastica o un giovane che vorrebbero studiare all’università, una mamma che vorrebbe incominciare un piccolo commercio, un papà che vuole ricostruire la casa distrutta dalla guerra, un profugo che vorrebbe ricongiungersi alla sua famiglia al villaggio d’origine, un povero che ha semplicemente fame… ecco dove vanno a finire i vostri aiuti. Sicuramente non meritiamo tanta stima e tanta fiducia. Grazie, davvero grazie! Da parte mia e di tutti i miei confratelli.

          Nel frattempo ci sono stati diversi avvenimenti. A fine maggio degli scontri iniziati intorno al Km5 – la zona a più alta tensione della città, ormai una sorta d’enclave impenetrabile e da cui provengono i nostri profughi – sono degenerati e alcuni elementi sono entrati nel perimetro della parrocchia di Fatima, a pochi kilometri del Carmel, provocando diversi morti, tra cui anche un sacerdote. Questo episodio ha provocato un temporaneo aumento di profughi sul nostro sito. Il 23 luglio, poi, è stato firmato un accordo a Brazzaville che prevedeva la fine delle ostilità tra i diversi gruppi di ribelli. Purtroppo tale accordo è stato più volte violato e, in diverse zone del paese, soprattutto a Batangafo, Bambari, e la stessa Bangui, ci sono stati scontri con morti e feriti. Il 20 Agosto a Bangui ci sono stati spari come non ne sentivamo da mesi, ma per fortuna questo non ha provocato un aumento dei profughi. Purtroppo, proprio pochi giorni fa, la situazione è ulteriormente degradata e la città è rimasta come paralizzata, sotto gli spari delle opposte fazioni, per quasi una settimana. Osservando l’arrivo della gente in fuga dai quartieri, ci è sembrato, per qualche instante, di ritornare ai giorni peggiori dello scorso dicembre. Una donna anziana, evidentemente impossibilitata a correre come gli altri, ha raggiunto il Carmel su di un carretto, spinto con forza da un bambino. Il suo volto era smarrito: sembrava una regina, improvvisamente spodestata dal suo piccolo regno, adagiata su una carrozza di miseria e di paura.

          Il 15 settembre è ufficialmente iniziata la missione di pace dell’ONU (MINUSCA) con un notevole dispiegamento di forze. Tale missione – composta di ben 12.000 uomini e i cui tempi saranno ovviamente piuttosto lunghi – si estenderà sull’intero paese e comporterà un intervento non solo militare, ma anche nell’amministrazione della giustizia. L’impunità è, infatti, una delle piaghe che affliggono il paese. Vi segnalo inoltre – e con un certo orgoglio – l’arrivo di un piccolo contingente italiano all’interno della missione militare dell’Unione Europea (EUFOR RCA). Si tratta di 50 genieri dell’8° reggimento della Brigata paracadutisti Folgore, guidati dal Ten. Col. Mario Renna, alpino della Brigata Taurinense. Si occuperanno di alcuni urgenti lavori di manutenzione sulle strade dissestate della capitale.

          Novità anche in convento. A luglio c’è stato un piccolo colpo di stato, ma senza feriti e saccheggi. Ogni tre anni i frati si riuniscono in Capitolo, gli incarichi sono ridistribuiti e possono esserci degli spostamenti. Qui al Carmel – poiché ‘squadra vincente non si cambia’ – sono cambiati alcuni ruoli. P. Mesmin da vice-priore è diventato priore, il sottoscritto è rimasto maestro degli studenti e P. Matteo è diventato maestro dei pre-novizi ed economo. Anche il gruppo degli studenti ha subito qualche cambiamento. Fra Christo e fra Rodrigue sono partiti per Yaoundé, in Camerun, dove proseguiranno gli studi di teologia, e fra Michaël si è recato nel seminario di Yolé a Bouar per un anno di esperienza pastorale. Prima di lasciare il Carmel, questi tre studenti hanno sostenuto l’esame finale di filosofia. L’esame si è svolto nella biblioteca del seminario maggiore di Bangui, ancora immerso in un campo profughi simile al nostro. Faceva un certo effetto ascoltare i miei confratelli discettare di Spinoza, Kant e Sartre circondati da grandi tende, panni stesi e bambini schiamazzanti. Ad un certo punto anche una capretta ha fatto capolino nella nostra aula magna; ma non essendo particolarmente interessata alle nostre dotte discussioni sui concetti di sostanza, imperativo categorico e libertà, ha preferito dirigersi verso pascoli più concreti. Da pochi giorni, fresco di noviziato, è arrivato fra Régis-Marie, che si è subito unito al gruppo degli altri studenti rimasti al Carmel: fra Félix, fra Martial e fra Jeannot-Marie. Cambiamenti anche nel pre-noviziato. Benjamin, Salvador e Léonce sono ritornati a Yolè per terminare il liceo; al loro posto sono arrivate quattro giovanissime reclute: Gérard, Philémon, Michaël e Hubert. Siamo in tutto undici, una buona squadra, pronta per affrontare il nuovo anno. E tanto per restare in tema v’informo che, alcune settimane fa, i miei confratelli, coadiuvati da alcuni profughi, hanno affrontato sul campo di calcio conventuale niente poco di meno che i soldati francesi dell’operazione Sangaris. La partita si è aperta con l’esecuzione dei rispettivi inni nazionali e si è svolta con grande fair-play, anche se il tifo dei profughi era piuttosto sbilanciato per la squadra del Carmel. La partita è terminata 4 a 1 per il Carmel. Forse vi può sembrare strano, quasi uno sproposito che, in tempi di guerra, ci si possa concedere il divertimento di una partita di calcio. È vero invece il contrario. In tempi di guerra ogni occasione è buona – e lo sport è sicuramente una di queste – per favorire la riconciliazione e per fare una cosa normale come correre dietro ad un pallone. I soldati francesi, inoltre, hanno avuto la bella idea d’indossare una maglia con la scritta: I yeke oko! Siete uno! Un chiaro invito alla riconciliazione e all’unità in questi tempi di lotte fratricide tra cristiani e musulmani.

          Quanto alla vita del nostro campo profughi, tutto procede piuttosto normalmente. L’unica novità è che, da qualche mese, la comunità si è direttamente implicata nella distribuzione dei viveri. Da gennaio, infatti, ne avevamo lasciata la gestione ai responsabili delle diverse zone. Purtroppo ci siamo accorti che la distribuzione non avveniva in modo equo, che i responsabili stessi ne approfittavano a discapito degli altri e che grandi quantità di viveri non arrivano ai profughi, ma finivano sul mercato. Ovviamente la comunità non poteva essere complice di questa ingiustizia. In una riunione con i responsabili delle zone, p. Mesmin spiega che d’ora in poi si cambierà metodo e che la comunità sarà di nuovo. Ad un certo punto mi chiede di prendere la parola. E qui, Dio mi perdoni, faccio il discorso più comunista della mia vita: “Siamo tutti uguali. Qui, invece, ci sono pochissimi che prendono 50 Kg di riso ciascuno, e tantissimi che ne ricevono soltanto 3. Questo sistema non può andare avanti. Tutti ne devono ricevere almeno 10”. L’uditorio non applaude, anzi mostra segni d’inquietudine; evidentemente molti appartengono ai quei pochi che si accaparrano 50 kg di riso, cioè un sacco a testa. Non ci rassegniamo e decidiamo di procedere ugualmente. P. Mesmin si piazza nel cortile, dove sostano i viveri in attesa della distribuzione, e consegna ad ogni responsabile la quantità prevista per la sua zona, seguendo la tabella prestabilita. I miei confratelli ed io, provvisti della stessa tabella, ci disponiamo nelle diverse zone e controlliamo scrupolosamente che la quantità di cibo prevista arrivi effettivamente a destinazione. I nostri profughi, vedendo l’intera pattuglia dei frati entrare in azione compatta e determinata, comprendono le nostre intenzioni: da oggi la distribuzione si farà in modo diverso. Solitamente, quando attraverso il campo, i bambini corrono a salutarmi, intralciando il mio cammino; e le mamme non glielo impediscono. Questa volta, invece, le mamme trattengono i loro bambini, dicendo: “Laso bwa Federico a yeke sara kwa ti ngangu. I zia lo. Oggi, padre Federico sta facendo un lavoro difficile. Non disturbatelo”. Ad un certo punto ci accorgiamo che in una zona non sono arrivati due sacchi di fagioli. Informo subito p. Mesmin. E il mio padre priore trova una soluzione tanto rapida quanto efficace: “Fino a quando i due sacchi di fagioli non torneranno là dove devono essere, non potrà avere inizio la distribuzione alle singole famiglie”. Che è come dire: o si trova il ladro, oppure non si mangia. A questo punto, più che l’onore ferito del capo-zona colto in flagrante, poté il lungo digiuno dei 500 profughi a lui affidati. In pochi minuti gli efficientissimi servizi segreti del nostro campo individuano i ladri che, con il maltolto, erano già diretti verso il mercato di quartiere. I due sacchi ritornano nel campo tra le grida di gioia di tutti i profughi. Le donne mi salutano alzando in alto il pollice: “Merci mon père! Bon traval mon père!”. La prima volta la distribuzione ha richiesto tre giorni di lavoro; ora ce la caviamo in una sola giornata… anche se pranziamo che è quasi ora di cena. E i responsabili di zona, mi domanderete, ai quali abbiamo sottratto tutto il loro commercio, come l’hanno presa? Avevano, più o meno, la faccia dei giocatori del Brasile dopo aver affrontato la Germania nell’ultimo mondiale. E un capo-zona mi ha addirittura salutato dicendo: “Padre, con questo sistema è impossibile rubare”. L’obiettivo è quindi centrato. A cena il padre priore ringrazia tutti per il lavoro svolto e per aver salvato l’onore della comunità. Ma un po’ ci dispiace che, per alcuni mesi, alcuni tra i profughi più poveri abbiano potuto pensare che non fossimo da loro parte. Comunque, se l’indice di popolarità dei frati già si attestava su buone posizioni, in seguito a quest’operazione tale indice è salito alle stelle.

          Quando osservo i nostri profughi sollevare i sacchi di riso, mi è spontaneo pensare alla situazione drammatica del paese. Gli africani compiono questo semplice gesto con la bellezza e la precisione di un passo di danza. È sufficiente un rapido sguardo d’intesa tra due persone; poi entrambe sollevano il sacco. Quando il sacco è sufficientemente in alto da superare la loro altezza, uno di loro si abbassa lievemente per ricevere sul capo l’intero peso. E poi cammina, può anche correre, trasportando il sacco di riso sul capo, quasi senza sentirne la fatica. Il Centrafrica in questo momento sta cercando di sollevare un peso enorme, superiore alle sue forze. In molti lo stanno aiutando: la Sangaris, la Minusca, l’Eufor, l’ONU, tante Ong, la Chiesa e anche voi. Da solo non può farcela. Abbandonare la presa in questo momento sarebbe da vigliacchi e il Centrafrica potrebbe soccombere sotto un peso troppo grande. Ma arriverà un giorno – deve arrivare e speriamo non sia troppo lontano – in cui il Centrafrica, dopo aver abbassato il capo, potrà camminare, anche correre, da solo e con tutto il peso sul capo.

          Domani, in tutto l’ordine del Carmelo, si apriranno le celebrazioni per il quinto centenario della nascita di santa Teresa d’Avila. Se non ci fossero stati il coraggio e l’amore per Cristo di questa donna spagnola del XVI secolo, noi ora non saremmo qui. In un mondo in fiamme, Teresa concepì i monasteri delle sue monache e i conventi dei suoi frati come presidi di orazione, di vita fraterna, di amore per la Chiesa. Il mondo è ancora in fiamme, forse più di allora e soprattutto da queste parti. E noi cerchiamo di camminare sui suoi passi, figli forse indegni, anche un po’ scapestrati, ma certamente innamorati di una Madre così straordinaria.

Un abbraccio e buon centenario!

Padre Federico, i fratelli del Carmel e tutti i nostri ospiti

 

 

...170 anni a Trento....

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