Notiziario da Bangui n° 10 – 25 Marzo 2014
Carissimi Amici,
eccomi ancora una volta nella vostra casella di posta elettronica con nuove notizie dal fronte di Bangui. L’espressione ‘fronte’ non è forse troppo esagerata, se penso ad una delle ultime avventure che ci è capitata, proprio pochi giorni dopo avervi inviato la mia ultima lettera.
Nella seconda metà del mese di febbraio sono venuti a trovarci padre Emilio, il padre Vicario del nostro Ordine, padre Marco, il nostro provinciale, e fra Claudio, mio compagno di noviziato. Nonostante l’insicurezza, e con molto coraggio, i nostri confratelli sono riusciti a visitare tutte le nostre cinque missioni, attraversando il Centrafrica in macchina e in aereo, dormendo in alberghi di fortuna, distribuendo parole e generi di conforto. Non potete immaginare come la loro visita ci abbia fatto piacere e come la loro semplice presenza ci abbia rincuorato e permesso di sperimentare, ancora una volta, la vicinanza di tutti i confratelli e le consorelle del nostro Ordine. Qui al Carmel di Bangui i nostri ospiti sono arrivati con un volo dell’ONU e la loro visita è stata breve ma intensa. La mattina della partenza li abbiamo accompagnati all’aeroporto di buon’ora. Con me sono venuti anche fra Felix, fra Martial e André, il nostro autista tutto-fare. A meno di 1Km dall’aeroporto, costatiamo che la strada è interrotta da barricate e da alcuni pneumatici in fiamme. Un giovane grida verso di noi: “Dove credete di andare? Qui si muore tutti!”. “Parla per te, caro il mio anti-balaka!”, vorrei rispondergli. Ma, per fortuna, i nostri ospiti non conoscono la lingua locale. Siamo costretti a fare marcia indietro e cerchiamo di raggiungere l’aeroporto da una strada laterale. Vorrei tanto approfittare della situazione per prolungare il soggiorno dei miei confratelli, ma non posso permettermi di fargli perdere l’aereo. Lungo la strada attraversiamo una zona controllata da un grande numero di anti-balaka. Arriviamo infine all’aeroporto e, dopo aver superato il check-point dei militari francesi, raggiungiamo il parcheggio. Mentre scarichiamo i bagagli, cominciamo a sentire i primi spari. Ci precipitiamo al check-in. Il comandante dell’aereo informa che la partenza è anticipata, anche se dovesse partire con due soli passeggeri. Le formalità si svolgono rapidamente. Saluto i miei confratelli e il Vicario mi sussurra: “ Federico, penso sia bene che attendiate un po’ in aeroporto prima di ripartire”. Mai l’obbedienza mi è stata più facile. Partiti i nostri tre confratelli, ci consultiamo sul da farsi. Sono le 8 del mattino. Un proverbio, di quelli tramandati in latino dal buon padre Nicola, offre tre preziosi consigli di sopravvivenza, utili anche in casi del genere: “Nella vita è bene stare sempre davanti ai buoi, dietro i cannoni e lontano dai superiori”. I buoi sono al sicuro nella stalla del convento. I superiori sono anche loro al sicuro sull’aereo e tra poco saranno veramente lontano. Restano i cannoni. Ci voltiamo e, nel parcheggio dell’aeroporto, vediamo schierati davanti a noi una dozzina di carri armati francesi. Quindi, almeno per ora, siamo giusto dietro i cannoni. Pochi metri più in là, dalle vetrate dell’ingresso dell’aeroporto, osserviamo, attoniti, la guerra in diretta. Gli spari si susseguono senza tregua e colonne di fumo si alzano lungo la via di accesso principale all’aeroporto. La gente fugge.
Donne e bambini invadono l’aeroporto. Ad un certo punto i cecchini francesi, posizionati sul tetto dell’aeroporto cominciano a sparare pure loro… sopra le nostre teste. I colpi sono fortissimi. Ci sdraiamo per evitare che ci raggiunga qualche pallottola vagante. Dopo un po’ di tempo, riteniamo che sia più prudente mettersi dietro un muro in cemento, piuttosto che dietro le vetrate. Provo ad alzarmi, ma il rumore di una mitragliatrice mi fa rimbalzare per terra. Tutti i bambini si mettono a ridere gridando: “Mounjou a kwi! (L’uomo bianco è morto)”. “Mounjou a kwi ape (L’uomo bianco non è morto… e non ne ha nessuna voglia), rispondo ai miei simpatici compagni di avventura. Riusciamo comunque a raggiungere una posizione più riparata. Ci sdraiamo, mentre gli spari continuano per qualche ora. Telefoniamo ai nostri confratelli assicurandoli che stiamo bene e chiedendo se, dalla radio, riescono a capire cosa stia succedendo. Ma, a quanto pare, loro ne sanno meno di noi. Per occasioni del genere, il Manuale del carmelitano perfetto, che per fortuna non esiste, ma questo paragrafo tutti lo conoscono a memoria, è perentorio: “Nulla ti turbi. Nulla ti spaventi. A chi ha Dio nulla manca. Dio solo basta”. Provo a pregare, ma non ci riesco. Sparo solo qualche Ave Maria. Mi viene spontaneo ringraziare il Signore perché, dopo aver accolto dei profughi, per qualche ora sono profugo anch’io; e ho la grazia di vivere quella precarietà che la mia gente vive da mesi e di condividere questo momento con i miei confratelli. Verso mezzogiorno gli spari sembrano cessare e i carri armati si allontanano. Saliamo in macchina per tentare di ritornare a casa. Al check-point i militari francesi ci incoraggiano: “Ma dove crede di andare, mon père? Sparano ancora dappertutto. Se vuole proseguire, è a suo rischio e pericolo”. Ovviamente desistiamo. Facciamo marcia indietro e proviamo ad immaginare il resto della giornata. Come e quando torneremo a casa? Passeremo qui la notte, chiedendo di riservare per noi una tenda tra i centomila profughi dell’aeroporto? Dopo circa un’ora, mentre stiamo cercando di mangiare qualcosa, ci accorgiamo dell’arrivo di un’ONG che conosciamo bene. Organizzano un convoglio per evacuare alcuni colleghi rimasti bloccati come noi. Chiedo se possiamo unirci anche con noi. Accettano. In pochi secondi il convoglio è formato e, velocissimi, abbandoniamo l’aeroporto. Lungo il tragitto preghiamo tutti i santi del paradiso perché ci proteggano. Attraversiamo quartieri deserti, per i quali non passavamo da mesi, perché considerati ‘zona rossa’. Le case sono distrutte o incendiate, i tetti in lamiera divelti, nessun negozio, pochissime persone e carcasse di macchine: Gesù mio, com’è brutta la guerra! Alle 14 siamo finalmente in convento. Riabbracciamo i confratelli. E poi faccio una breve visita in chiesa per ringraziare il Signore di averci fatti ritornare a casa sani e salvi.
La vita del nostro campo profughi prosegue al ritmo delle stagioni e dei tempi liturgici. In occasione del Mercoledì delle Ceneri i nostri fedeli hanno superato, quanto a numero, zelo e devozione, gli abitanti di Ninive dopo la predicazione di Giona. Fino a pochi giorni fa il numero dei nostri profughi si era stabilizzato intorno ai 5.000. Ma, dal momento che in diversi quartieri di Bangui si spara ancora, la gente, anche quella che aveva provato a rientrare, spesso è costretta a ritornare da noi. Attualmente potrebbero essere intorno ai 15.000 (il 40% dei quali sotto i 15 anni). A Bangui i siti che accolgono profughi sono ancora 59, alcuni dei quali con molta più gente di noi. Queste cifre vi dicono le dimensioni e la complessità della situazione che tiene prigioniera la città. Pensavamo di risolvere tutto per Natale… ed ora siamo quasi a Pasqua.
Per questo motivo la nostra comunità, dopo tre mesi di emergenza, è stata costretta a fare un discernimento. Sul tavolo del capitolo conventuale quattro ipotesi. La prima: mandare a casa tutti i nostri profughi. La seconda: andarcene via noi e lasciare il convento ai profughi. La terza: aspettare che i profughi se ne vadano per poter riprendere la nostra vita normale. La quarta: provare a fare i frati con migliaia di profughi attorno al convento. La prima e la seconda ipotesi non le abbiamo mai prese seriamente in considerazione, se non durante la ricreazione o quando siamo un po’ stanchi. La terza è stata scartata perché dovremmo aspettare troppo, nessuno sa fino a quando. E poi avevamo una voglia matta di tornare a fare i frati a tempo pieno. La quarta ipotesi, quindi, è stata votata favorevolmente all’unanimità. Abbiamo così raccolto la sfida di fare i frati in un convento con annesso un campo profughi… certi della benedizione di Papa Francesco e dell’approvazione del Padre Generale.
Per questa ragione siamo stati costretti, anche se a malincuore, a ridimensionare il nostro piccolo ospedale d’emergenza, trasferendolo in una struttura all’esterno. Inoltre, anche se non è stato facile dare lo sfratto ad un centinaio di bambini, con solo una settimana di preavviso, abbiamo ripreso possesso della nostra Chiesa. È stato un po’ emozionante risentire il suono delle nostre voci nel luogo abituale della nostra preghiera. Il confratello sacrestano, scherzando, ha suggerito di fare una sorta di rito di purificazione. Ma i poveri non profanano un bel niente. Anzi è stata forse la loro presenza che ha come consacrato e reso ancora più bella la nostra chiesa. Rientrare nella nostra chiesa è stato come entrare nella stiva di una nave o nel ventre di una madre che ha salvato la vita a centinaia di bambini nel naufragio della guerra. E poi, proprio nella nostra chiesa, era nato Jean de la Croix, il primo bambino venuto al mondo al Carmel il 13 dicembre 2013.
Abbiamo anche ripreso le nostre attività apostoliche. Solo fra Jeannot non ne ha voluto sapere di riaprire il gruppo Santa Teresina che insegna a pregare ai bambini dai 3 ai 7 anni. Teme, giustamente, di avere troppi nuovi clienti. Anche il nostro gruppo vocazionale ha qualche nuovo candidato. Alcune settimane fa, un giovane tra i nostri profughi, di nome Alain, chiede di parlarmi. Avevo già notato la sua assidua partecipazione alla messa mattutina. Ci sediamo e, senza troppi preamboli, Alain espone le sue intenzioni: “Mon père, vorrei essere come voi”. Poi, come per assicurarmi di aver ben capito che è la preghiera il cuore pulsante del Carmelo, continua:“Potrei avere anch’io la vostra Bibbia con le preghiere (cioè il breviario)? Quando vi mettete a cantare in Chiesa, riesco solo a dire ‘dans les siècles des siècles’”. Ogni volta che un giovane apre il suo cuore ad un sacerdote e manifesta il desiderio di consacrarsi a Dio, al di là di come finirà un giorno la vicenda, c’è sempre come un reciproco brivido d’intesa e di complicità. Il giovane, fatta la sua dichiarazione, pensa di avere già fatto la professione solenne. Il sacerdote, più prudente, pensa che sia solo questione di fissarne la data.
Ora: il discernimento è cosa difficile a tutte le latitudini, ancor di più da queste parti. Quindi è bene non farsi illusioni. Ma, pensando al modo in cui Alain ci ha conosciuto, mi è venuto in mente un capitolo della regola di san Benedetto. Per colui che chiede di essere introdotto in monastero, la regola esige che il superiore metta alla prova le sue motivazioni, obbligandolo a sostare davanti alla porta del convento, per almeno quattro o cinque giorni, prima di essere accettato. Alain si trova davanti alla porta del convento da più di tre mesi… e quindi abbiamo ritenuto che fosse sufficientemente pronto per condividere un po’ di più la nostra preghiera e il nostro lavoro. E scoprire cosa faranno mai questi giovani frati quando non sono in giro tra le tende dei profughi. Dopo Alain si è presentato anche Jon… Il futuro di questi giovani, e di tanti altri, è ora nelle mani di Dio e delle vostre preghiere.
Gli studenti, cioè i sei confratelli più giovani della cui formazione sono responsabile, hanno ripreso gli studi di filosofia e teologia dopo tre mesi di vacanza. Ne avrebbero meritati altri tre per quanto hanno lavorato, ma anche loro avevano voglia di fare una cosa così normale come andare a scuola. E così, se al mattino disquisiscono di etica e metafisica, al pomeriggio guidano il trattore, distribuiscono riso e fagioli, risolvono con grande pazienza piccole discussioni che nascano tra i profughi. Anche il sottoscritto è ritornato a scuola, ma solo per un giorno. Tutti i responsabili dei siti di Bangui sono stati infatti convocati per una giornata di formazione. Ed io, che speravo di fare un dottorato in patrologia, mi sono ritrovato, dopo tre mesi di pratica e un giorno di teoria, con un diploma honoris causa in‘Gestione e coordinazione di un sito di profughi’ conferitomi niente poco di meno che dall’Alto commissariato dell’ONU per i profughi. La vita riserva sempre delle belle sorprese!
Vi ringrazio per l’attenzione con cui seguite le puntate della nostra avventura. Quello che all’inizio non era che un’e-mail inviata ad alcuni confratelli per informarli che avevano a cena qualche ospite in più, si è trasformato in un bollettino di guerra e di pace che sta facendo il giro del mondo. Spero di non annoiarvi troppo. Ma è anche vero che, se tardo a scrivere, dopo qualche giorno qualcuno comincia a chiedermi se tutto procede bene.
Un grande grazie, infine, a tutti quelli che, oltre che con la preghiera e l’amicizia, hanno voluto manifestare in modo concreto e generoso la loro vicinanza. Anche se molti di voi ci sono quasi sconosciuti, siete, ogni sera, nelle nostre preghiere.
Padre Federico, i fratelli del Carmel e i nostri ospiti
Notiziario da Bangui n° 9 – 13 Febbraio 2014
Carissimi amici,
il nostro campo profughi ha ormai superato abbondantemente i due mesi. Davvero chi l’avrebbe immaginato che quelle porte, spalancate il mattino del 5 Dicembre dello scorso anno, sarebbero rimaste aperte per così tanto tempo e che i nostri ospiti si sarebbero così affezionati al Carmel!
Evidentemente, se i nostri ospiti sono ancora qui, sebbene diminuiti, un motivo c’è. La situazione, infatti, stenta a migliorare in modo significativo. A Bangui non passa giorno, e soprattutto non passa notte, in cui non ci siano morti, saccheggi e regolamenti di conto. Ma la cosa ancor più drammatica è che, da diverse settimane, è ormai quasi l’intero paese ad essere teatro di scontri e di violenze senza precedenti. Se in capitale una certa presenza militare, soprattutto francese, assicura una relativa tranquillità e la possibilità di spostarsi senza rischiare troppo la vita, in provincia la situazione è molto più complessa. Tutta la zona nord-occidentale del paese è stata a più riprese oggetto di rappresaglie da parte ora dei seleka ora degli anti-balaka: saccheggi, uccisioni, case – tantissime case – e mercati bruciati.
Il paese è entrato nel vortice di una violenza becera che sembra non arrestarsi. Quello che all’inizio sembrava una lotta per il potere, si è ora trasformato in uno scontro tra queste due fazioni che hanno avvelenato il paese e mietuto vittime innocenti. La follia della guerra non ha risparmiato neppure le famiglie dei miei confratelli: a qualcuno è stato ucciso un membro della famiglia, a qualcun’altro è stata bruciata o saccheggiata la casa. Se i seleka, e chi li ha sostenuti, sono indubbiamente all’origine della situazione in cui ci troviamo, gli anti-balaka hanno dimostrato una violenza pari, se non superiore, a chi li ha preceduti e provocati.
Gli anti-balaka, che non sono musulmani, non possono dirsi cristiani. Se lo erano, le loro azioni dicono il contrario. Più volte, infatti, i vescovi hanno denunciato questa violenta reazione popolare, che i media hanno frettolosamente interpretato come cristiana. Ma, poiché non sono musulmani, la confusione è stata inevitabile. Ci consola la consapevolezza che, sebbene tutto ciò sia una vergogna, sono stati centinaia, forse migliaia, i musulmani che hanno trovato rifugio nelle parrocchie e nei conventi sparsi nel paese... salvandosi letteralmente la vita. Ma l’esodo di questa minoranza è ormai cominciato. Tantissimi musulmani – e tra questi anche alcuni nostri carissimi amici – sono stati costretti a lasciare il paese, pur essendo nati qui. A ciò si aggiunge un effetto collaterale che renderà ancora più difficile la già fragile economia del paese. Le poche attività commerciali del paese – soprattutto, ma non solo, la vendita all’ingrosso e al dettaglio dei generi alimentari di base – era infatti in mano ai musulmani. Il futuro del paese, anche quello economico, è quindi una vera incognita.
In questo quadro desolante c’è stato, il 20 gennaio, un segnale di distensione: l’elezione di un nuovo presidente nella persona di Cathérine Samba Panza, ex-sindaco di Bangui. Se pace sarà, quindi, sarà donna. Tale elezione è stata salutata positivamente dalla comunità internazionale. Cathérine Samba Panza ha poi una cosa alla quale i politici tengono molto e che faceva difetto a chi l’ha preceduta: il favore popolare. Ciò non toglie che il compito che le sta davanti sia difficile, quasi impossibile. È ancora presto, allora, per cantare vittoria e brindare alla pace. Del resto, nel nostro frigo, dorme uno spumante che non abbiamo ancora avuto il coraggio di stappare da due mesi a questa parte.
La nuova presidente ha in seguito nominato un nuovo primo ministro il cui cognome è tutto un programma:Nzapayeke, che significa ‘Dio c’è’. Un ottimo tandem con il vescovo di Bangui, il cui cognome,Nzapalainga, significa ‘Dio sa’. Quindi: Dio c’è e Dio sa. Queste due certezze, che non sembrano mai essere venute meno nel cuore di tutti i centrafricani, siano essi cristiani o musulmani, sono più che sufficienti per non scoraggiarci, sentirci al sicuro e andare avanti.
Ve lo ricordate padre Anastasio? Il suo soggiorno è stato breve, ma i nostri profughi lo hanno subito preso in simpatia. Tutti i nostri bambini hanno imparato a dire ‘ciao’… “anche senza dargli una caramella” (o, almeno, così sostiene padre Anastasio, noto in tutto il Centrafrica come père Ciao). Comunque se padre Anastasio avesse presentato la sua candidatura come presidente del Centrafrica avrebbe avuto qualche chance di vittoria. Qui al Carmel avrebbe stravinto. Ma purtroppo, dopo aver fotografato tutto il fotografabile, padre Anastasio è stato costretto a ripartire, confessandomi che non gli era mai stato così difficile lasciare il paese.
Per fortuna, al suo posto, è arrivato subito fra Nicola, un dono del padre provinciale per offrirci un po’ di auito e di sostegno. Fra Nicola, che proprio in Centrafrica scoprì, ormai più di vent’anni fa, la sua vocazione, ha lasciato il silenzioso Eremo di Varazze per questo convento trasformato in un chiassoso campo profughi. Mastica ancora un po’ di sango (la lingua del Centrafrica) dal sapore lucano e quindi il suo inserimento è stato veloce. Ha portato con sé una bella statua della Regina della Pace che è andata a ruba tra i miei confratelli per un giro di novene. Fra Nicola, quando non s’infiamma parlando della Madonna, sa fare veramente di tutto e appartiene a quella specie di frati dei più apprezzati e contesi nei conventi. Il suo soggiorno sarà breve, ma ci ha comunque dato una grossa mano.
Nel frattempo è nata una scuola d’emergenza, grazie anche all’iniziativa degli insegnanti cattolici presenti tra i nostri rifugiati. L’organismo incaricato di costruire la scuola avrebbe voluto utilizzare il nostro campo da calcio. Ma i miei confratelli, che sono stati alquanto generosi nell’offrire la chiesa per il sonno dei più piccini, molto sportivamente non hanno voluto sentir parlare di rinunciare al campo di calcio conventuale per farne una scuola. E quindi la scuola è sorta nel giardino delle suore, a pochi metri dal nostro cancello. Il giorno dell’inaugurazione, seduto sulla poltrona principale, ho ricevuto gli onori degni di un direttore scolastico di una popolatissima scuola con classi, purtroppo senza banchi e sedie, che sfiorano i duecento allievi. Mi hanno dato la parola presentandomi come Bwa Febaba ti adéplacés kwe ti Carmel (padre Federico, papà di tutti i profughi del Carmel)derico, .
In questi giorni, la gioia più grande è vedere ogni mattina frotte di bambini che sciamano dal nostro campo profughi, con le loro cartelle griffate Unicef, per raggiungere le loro classi profumate di plastica… per fare una cosa così normale, così bella e così giusta come andare a scuola. Io, alla loro età, non mi ero accorto di essere fortunato perché i giorni di scuola superavano quelli di vacanza. Qui, invece, da alcuni anni, è purtroppo quasi il contrario. Se avete dei bambini, diteglielo prima che sia troppo tardi.
Purtroppo, se i bambini non mancano, la nostra fattoria ha subito un duro colpo a causa di diversi furti. A Bangui i prezzi dei generi alimentari sono a volte addirittura raddoppiati e la carne è diventata introvabile. Il nostro bestiame, quindi, fa gola a tutti, soprattutto ai ladri. Ma noi teniamo duro. Se mai ne usciremo da questo diluvio, le 22 mucche e le 37 anitre del Carmel saranno una sorta di arca di Noè, grazie al quale sarà ripopolato il Centrafrica. Quanto alla prosecuzione della specie umana, i centrafricani non hanno bisogno di essere incoraggiati.
Quanto a bambini, tuttavia, al Carmel non ne sono più nati. In compenso è arrivato Geoffroy, un bambino di circa 12 anni, proveniente da Bossangoa, una città situata a 400 Km a nord di Bangui. Geoffroy non ha fratelli, i suoi genitori sono morti a causa di una granata e la sua casa è stata incendiata; e lui, accompagnato da dei militari, è arrivato fino a Bangui. Dopo aver trascorso qualche giorno nel campo profughi dell’aeroporto – che ospita qualcosa come 100.000 rifugiati – un taxi-moto lo ho lasciato davanti al cancello del nostro convento senza troppe spiegazioni. E noi lo abbiamo lavato, vestito, nutrito, cercando di comprendere qualcosa della suo passato e di trovare una soluzione per il suo futuro. Nel frattempo, senza troppe difficoltà, Geoffroy si è adattato ad usi e costumi del convento, forse un po’ smarrito per tanta accoglienza da parte di 12 giovani frati, ma felice di poter dormire in un luogo sicuro. A noi, tutta questa simpatica e incredibile storia, è sembrata la versione africana di ‘Marcellino, manioca e vino’…
Abbiamo anche ricevuto la visita delle suore di Madre Teresa di Calcutta. Senza troppo rumore e zero burocrazia, questi angeli vestiti di sari sono riusciti a fare qualcosa che nessuna ONG era fin’ora riuscita a fare. Per ben due volte hanno offerto un pasto caldo per tutti – proprio tutti – i bambini: una zuppa di riso dolce. E, prima di ripartire, hanno preso con sé Pierre, un vecchio congolese ammalato, rimasto abbandonato nel fuggi fuggi della guerra.
C’è poi, qui al Carmel, un Corpus Domini quotidiano. Ogni mattina, al termine della celebrazione eucaristica nella nostra cattedrale di palme e cielo, riportiamo quanto resta dell’Eucaristia nel tabernacolo all’interno del Convento. Sembrano, ogni volta, le dodici ceste avanzate dopo la moltiplicazione dei pani. Il Santissimo, per nulla infastidito, attraversa il nostro campo di profughi in un caleidoscopio di colori, odori, fumi e profumi, fango e polvere. E, mentre compio questa surreale processione, ringrazio in cuor mio questa gente, che forse non sa che sta obbligando me e i miei confratelli a vivere un po’ di più il Vangelo.
Alla prossima!
Padre Federico, i fratelli del Carmel e i nostri ospiti
Una porta aperta.......
BERGAMO
Una porta aperta … sulla fraternità interconfessionale
Da un paio d’anni, in accordo col Segretariato Migranti della Diocesi, abbiamo la gioia di ospitare nella nostra casa di Bergamo Bassa un gruppo di fedeli della Chiesa Ortodossa Etiope, che hanno chiesto accoglienza per la loro preghiera comunitaria, ogni quindici giorni, la domenica mattina.
Non essendoci ancora, a Bergamo, una chiesa destinata alle celebrazioni secondo il loro rito, questo gruppo era stato precedentemente ospitato dai Frati Cappuccini di Borgo Palazzo. A un certo punto, però, l’ambiente che utilizzavano si è reso necessario per ampliare la mensa dei poveri, un preziosissimo servizio di carità che da anni i nostri frati esercitano nello spirito di S. Francesco, accogliendo quanti, sempre più numerosi, necessitano quotidianamente dei beni di prima E così, in una catena di carità che vede e vorrebbe soccorrere i bisogni non solo materiali, ma anche spirituali del prossimo (il fondatore Benaglio pensava le Figlie del S. Cuore dedite al “bene soprattutto spirituale del prossimo”!), ci siamo trovate a contatto con l’esperienza di fede dei nostri fratelli ortodossi con le loro tradizioni culturali.
Ordinariamente si ritrovano in una grande sala, dove stanno a lungo in profondo raccoglimento e li sentiamo
pregare coralmente e cantare le loro melodie. La lingua è incomprensibile, ma il calore della fede e della comunione che ne scaturisce si comunicano senza parole!
Una volta all’anno, il gruppo si allarga perché giungono fedeli anche da Milano e da Brescia, per partecipare all’incontro di preghiera e di catechesi guidato da Abbà Samuel, sacerdote guida del luogo di culto milanese. E’ successo il 3 giugno, quando, con canti particolarmente gioiosi accompagnati dal battito delle mani al suono di un grande tamburo, i nostri amici si sono radunati in un ambiente più ampio del solito, addobbato con cura per la circostanza, con tappeti e fiori e numerose immagini religiose. Il tutto creava un’atmosfera di intensa sacralità. Abbiamo anche apprezzato che, in questi appuntamenti “speciali” del loro culto, i nostri fratelli ortodossi amano esprimere il senso della venerazione di Dio anche con una cura particolare del loro Le bambine, per esempio, arrivano agghindate a festa con abiti tradizionali che sono un’armonia di colori,
mentre le donne si ricoprono dell’ampio velo bianco che le distingue sempre nei momenti comunitari del culto religioso.
Domenica è stato festeggiato il battesimo di Cristian. Ci hanno spiegato che il battesimo viene conferito ai maschietti a 40 giorni dalla nascita, mentre per le bambine il tempo è raddoppiato (80 giorni). Alla gioia dei genitori hanno preso parte anche numerosi amici e conoscenti etiopi, con le rispettive famiglie, provenienti sempre da Bergamo, Brescia e Milano. Anche il momento conviviale che è seguito, coi piatti tipici della loro cucina, è stato certamente una bella occasione per rinsaldare l’amicizia, l’unità e l’identità di popolo, tenendo vive tradizioni di una terra geograficamente lontana, ma affettivamente sempre presente.
In queste circostanze, i nostri fratelli copti sono lieti di metterci a parte delle loro consuetudini non solo religiose, ma anche... culinarie!
Abbiamo così potuto assaggiare il pane e le pietanze che le donne preparano accuratamente e mettono poi in comune, dando ancora più “sapore” alla fraternità che nasce dalla fede condivisa e celebrata insieme.
Mentre Papa Francesco, con la forza della tenerezza cristiana, percorre i sentieri del dialogo interreligioso e incoraggia i credenti alla fraternità universale, noi diamo il nostro modestissimo contributo tenendo semplicemente aperta la porta di casa.
Un piccolo spazio della nostra grande casa si fa chiesa per chi ancora non c'è. E’ il contributo del “piccolo gregge”, come il Fondatore chiamò le Figlie del S. Cuore nel giorno della fondazione. E vorremmo che fosse non solo una questione di muri, ma di cuori.
La Comunità di Bergamo
Rassegna Bibliografica Ragionata.....
Rassegna Bibliografica Ragionata
per conoscere meglio i fondatori, la storia e lo spirito
delle Figlie del S. Cuore di Gesù
Il volume “Rassegna bibliografica ragionata dell’istituto Figlie del Sacro Cuore di Gesù” costituisce una novità almeno per tre motivi.
Anzitutto, è la prima volta che le Figlie del Sacro Cuore di Gesù hanno deciso di far intraprendere da una delle religiose un lavoro non indifferente, sapendo che sarebbe durato diversi anni e avrebbe incontrato non poche difficoltà, dovute sia alla necessità di reperire tutte le pubblicazioni riguardanti l’istituto, sia al tempo, inevitabilmente lungo, che sarebbe stato necessario per leggerle ed esaminarle.
Inoltre, il volume costituisce una novità anche tra le pubblicazioni riguardanti la storia delle congregazioni religiose femminili. A quanto mi risulta, almeno per l’Italia, questo delle Figlie del Sacro Cuore è il primo esempio di uno studio che raccoglie ed esamina tutte le pubblicazioni relative ai fondatori e alla storia di un istituto, dalle origini a oggi.
Un terzo motivo di soddisfazione è costituito dal fatto che questa bibliografia, diversamente dalle tante altre compilate da grandi Ordini religiosi come Gesuiti, Francescani, Domenicani ecc., non si limita a un arido elenco di titoli di opere, ma le esamina tutte, ricollocandole nel loro contesto storico e mettendone in luce pregi e limiti.
Certo, la lettura di un libro del genere è difficile e non può essere di carattere continuativo. Ma chi volesse approfittare della “Guida alla lettura” e seguisse passo passo le indicazioni relative all’argomento prescelto - sia esso il fondatore, canonico Giuseppe Benaglio, sia la fondatrice, S. Teresa Eustochio Verzeri, sia Maria Antonia Grumelli, sia altri argomenti come le costituzioni dell’istituto, il suo sistema educativo, la sua spiritualità, ecc. – si troverebbe di fronte a una miniera di informazioni, parecchie delle quali risulterebbero nuove, con piacevole arricchimento
delle proprie conoscenze e del proprio spirito.
Conviene quindi essere grati a sr. Rosy che ha accettato, con una fatica durata diversi anni, di compiere questa ricerca a vantaggio del suo e anche di altri istituti religiosi, che in essa potrebbero trovare un esempio da imitare.
Giancarlo Rocca - Società S. Paolo
Storico. Direttore
del “Dizionario degli istituti di perfezione”.
CON-FUSIONE di NATALE
Accoccolata con il suo Kleo in grembo, Vera ha benedetto di gioia e di pace la nostra nuova chiesa. Ci eravamo messi a cercare macerie per alzare il livello del sagrato, e sagra è stata.
Con i camion sono arrivati a frotte i bambini magyp, esperti di ferro e di lattine, a strappare dai calcinacci ogni residuo di metallo. Si sono aggirati felici tra la polvere, per l’intera settimana, la scuola non li cerca.
Tra il vociare dei piccoli e le martellate dei più grandi, abbiamo presto intuito i sottintesi criteri organizzativi: un camion per famiglia, così, dopo poche ore, tutte le famiglie rom di Shengjin avevano il loro feudo, un mucchio di macerie da rovistare per bene, liberando i tondini dal cemento, per rialzare l’economia di casa, sui ruderi di altri.
Kleo ha mangiato e poi dormito, il suo turno verrà tra qualche anno. La scena si è compiuta sulla parete esterna del battistero: impossibile non pensare alla Vita, alla Rinascita, alla Libertà e alla Gioia che sono per ogni figlio di Dio, cioè per tutti.
Tra la polvere-incenso delle macerie, una madre e il suo bambino hanno celebrato la vita e tutti i suoi significati, battezzando la nostra chiesa prima ancora della liturgia che verrà. “Questa è buona per il Natale”, ho pensato, considerando la fotografia e tutto il suo contorno. Perché, senza forzature, penso che per Dio, l’Onnipotente, il farsi uomo è stato un con-fondersi con la nostra polvere, un contaminarsi con il nostro sudore, un darsi alla fatica, che prelude alla gioia come al dolore. “Una colata di sudore e amore”, così Alda Merini canta Gesù in poesia, Dio “vestito di cenci” che percorre la terra “in mezzo all’ombra e alla luce”, Cristo Gesù “che è stato una catastrofe” perché “ci ha avvicinati tutti l’uno all’altro”. (cfr Alda Merini, Corpo d’amore, Frassinelli, 2001).
Non un’altra creazione, quella del Figlio Incarnato, dove tutto ha un posto perché separato e diviso, piuttosto una salutare rimescolata al genere umano, con il braccio forte di Dio stesso, che ci costringe a rovinarci addosso e ad abbracciarci, salutare caos per una ri-creazione che, nel Figlio, ci fa gustare tutti contenti il pane nuovo della fraternità.
Facciamoci gli auguri, credenti e non: di essere protagonisti di una bella con-fusione natalizia, sommersi dalle parole dei vicini, contenti di tacere o anche di gridare, addormentati e sazi come Kleo, mentre proprio sui nostri piedi, in mezzo alle macerie che siamo, qualcuno riporta in vita i fili di ferro per l’edificio che verrà.
sr. Gianna Lessio