TERESA EUSTOCHIO VERZERI
EDUCATRICE
C’è una piazzetta in Bergamo Alta, vicino al “Gromo”, prima sede delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù intitolata così: Piazzetta Verzeri, senza altra qualifica.
Recentemente a Bologna, quando la commissione toponomastica dedicò una strada alla Beata Clelia Barbieri (1847-1870), aggiunse la qualifica “educatrice”. Anche la targa di Bergamo Alta è da leggere analogamente: Teresa Verzeri “educatrice”. E’ il tema della nostra conversazione, sull’onda del centocinquantesimo dell’Istituto che sorse l’otto febbraio 1831.
Le commemorazioni sono rischiose, perché corrono sul filo della cosidetta beatificazione innocua: encomi solenni, panegirici; ma niente di nuovo … Anche se il modello della glorificazione, dati i tempi duri, fa bene all’anima.
Verzeri vuol dire giardini … Un antico testo valdese porta il titolo: “Vergier de cunsollacion”, giardino di consolazione. Verzeri significa convivialità, simpatia, forse anche gioco; e insieme elevazione mistica, contemplazione. L’una e l’altra componente fu ben viva in Teresa Eustocchio Verzeri, giardiniera di Dio, promotrice di riscatto culturale e spirituale, angelo della spada di fuoco, che non chiude la porta dell’Eden ai piccoli e ai poveri …
La Verzeri appartiene al ruolo delle educatrici a tempo e a cuore pieno, che hanno la passione dell’educare e del ri-educare. Percorre in certo senso la pedagogia della marginalità e dell’handicap, inserendosi con una sua sigla caratteristica nella serie di mistici dell’educazione, fiorita in Piemonte, nel Lombardo-Veneto, nell’Emilia-Romagna, in tutto l’arco del 1800. Anche il Cuore che emblematicamente contrassegna le sue figlie, è un simbolo biblico di interiorità profonda, santuario della persona umana, aperta al dono e all’agape. Da quella sorgente scaturisce il progetto e il metodo educativo della Beata Teresa Eustochio: Educare è una difficile arte, un vero martirio. La Verzeri ne è profondamente consapevole. Ha una concezione mistica del servizio educativo. Le immagini e i principi che configurano il suo disegno, trascorrono dal campo dell’esperienza mistica a quello pedagogico, e fondono la parte più libera e creativa del sistema verzeriano.
Di questa mistica dell’educazione la nostra Beata ha lasciato una traccia evidente nella clausola finale del capitolo del “Libro dei Doveri” dedicato al “modo di educare le giovinette”. Si tratta del bellissimo paragone tratto dalla “Notte Oscura” (II,10,1) di San Giovanni della Croce: “el madèro de la cruz”, l’albero della croce.
L’immagine appartiene di rigore alla mistica sperimentale, ma Teresa lo adopera e lo svolge liberamente nei suoi riflessi pedagogici.
Dice S. Giov. della Croce:
“la luce divina si comporta come un fuoco in un legno per trasformarlo in sé. La prima cosa che fa è quella di cominciare ad essicarlo, cacciandone fuori l’umidità e facendone gemere l’umore in esso contenuto. Lo fa poi
diventare oscuro, nero e brutto, facendogli
Dice la B. Verzeri
“Lo spogliare una giovane vana dai suoi indumenti pomposi, prima di toglierle dal cuore la vanità, sarebbe lo stesso che sfrondare un albero e spogliarlo dei fiori senza tagliare le radici. Per alcuni mesi lo vedreste nudo e deserto, non atto più a difendere con l’ombra
emanare anche cattivo odore, e mentre a poco a poco li dissecca ne mette alla luce e ne toglie tutti gli accidenti brutti e oscuri, contrari al fuoco. Infine, investendolo con la fiamma e comunicandogli calore, lo trasforma in sé rendendolo bello come il fuoco stesso. A questo punto il legno non possiede più alcuna azione e passione propria …. Ma come il fuoco, è secco e dissecca, è caldo e riscalda, è luminoso e illumina; ed infine è molto più leggero di prima.
dal sole, né a ricreare chi l’osserva, né a contemplare chi lo coltiva; nemmeno è servibile per il fuoco; poiché, essendo intatta e viva la radice, manda di continuo a tutto l’albero l’umore, che al fuoco fa resistenza e tanto più quanto nel tronco è concentrato. Se invece di gustare le fronde e i fiori si darà la scure alla radice, non sarà gran fatica per averlo sfrondato. Le foglie ingiallite e secche, i fiori appassiti ed aridi, cadranno presto da sé, poiché la radice, morta, non manderà più l’umore necessario a mantenerli vivi e appariscenti. Allora si può levar l’albero dalla terra e porlo senza timore sul focolare; ché, non avendo più l’ostacolo in sé del proprio vigore, si trasforma presto in fuoco …"
Il paragone fa al caso nostro: voi applicatelo saviamente.
Il raffronto, insieme a tanti altri che si potrebbero ritagliare, indica che l’anima profonda di Teresa più che rifarsi a testi divulgati dalla pedagogia gesuitica, attinge a fondi mistici che fanno capo a Santa Caterina da Genova, e al suo epigono(tramite le compagnie del divino amore) San Girolamo Emiliani; nonché a Santa Teresa d’Avila, a San Giovanni della Croce, e allo stesso Ignazio di Loyola meno citato, mistico più organizzatore e leader.
Da questo, come da altri paragoni vegetali, attraverso un più attento spoglio degli scritti, dell’epistolario e degli annali, si potrebbe mettere in più chiara luce l’attitudine di Teresa Verzeri, non tanto guerriera velata, quanto coltivatrice diretta nel campo della gioventù, giardiniera dell’educazione. Un altro passo, fra i tanti, esprime in modo incisivo questo suo carisma di coltivatrice di piante umane: “Chi sforza con industria una pianticella a produrre frutto prima del tempo segnato dalla Provvidenza nella natura, la fa disseccare; e anche quando si ottengono alcuni frutti, sono così insipidi, che fanno pentito chi li assaggia e chi li ha affrettati. Che bel pro!
Per un frutto prematuro e senza gusto, perdere una pianta, che, lasciata nell’ordine naturale, avrebbe dato a suo tempo frutti in copia e saporosissimi”. (Libro Doveri: modo di educare … pag.351) Si direbbe che Teresa ama il legno verde, l’adolescenza; nella pianta ancora acerba sa intravedere il frutto maturo. Ad ogni albero la sua stagione, secondo l’aureo principio della individuazione, che è il caposaldo del suo sistema pedagogico: lo stesso problema, in due soggetti diversi, si tratta in modo differenziato … Ma in tutte le stagioni e sotto tutti i cieli, la stella fissa e la volontà di Dio Padre, ricco di misericordia. Quando la Verzeri vede una pianta giovane, con radici già ben affondate nel terreno, dice a se stessa: - Da questo albero si può trarre qualcosa di buono!- E sa aspettare i tempi dell’innesto, della potatura, del raccolto, secondo le leggi della biologia, dove non esistono schemi prefabbricati, ma linee di tendenza. Sa seminare con pazienza, con la serena fiducia che mieterà con giubilo …
L’attesa calma e lungimirante caratterizza questo progetto educativo, che sa esigere e concedere, pretendere e perdonare … Da chi l’ha imparato? Direi soprattutto, dalla tradizione familiare della nobiltà campagnola dei Grumelli e dei Verzeri: ma anche dalla linea sapienziale della Chiesa di Bergamo, forte e coerente, con i suoi umori rudi e generosi, la sua testimonianza alla verità che rende liberi.
Ecco un altro tema da far emergere con rigore e con vigore: l’influsso determinante della Chiesa locale. A volte si enfatizza nella formazione della Beata l’azione del Benaglio, come direttore spirituale, mettendo in secondo ordine il fatto che è il vicario generale, il n° 2 della diocesi; non solo il prezioso luminare e la guida del foro interno, il padre dell’anima, ma anche l’autorevole patrono dell’opera nascente, intermediario naturale tra essa e il Vescovo. Teresa avvertirà dolorosamente la sua mancanza, quando dopo la morte del Benaglio, avvenuta il 18 gennaio del 1836, dovrà lottare in solitudine contro le resistenze della Curia.
Monsignor Giuseppe Benaglio (1767-1836) è l’espressione, solida e autentica, di quella Chiesa Bergamasca che tra gli altri doni, ha dato a Bologna il Card. Giorgio Gusmini e alla Chiesa universale papa Giovanni XXIII.
Gusmini, prima di essere vescovo a Foligno e a Bologna (1914-1921) era stato educatore e insegnante al Collegio Sant’Alessandro di Bergamo, fucina di personalità sacerdotali, erede di una scuola di alta qualità in tutti i sensi. Il motto araldico del Gusmini (“fortiter et suaviter”) potrebbe fregiare anche il sistema educativo della Verzeri. Qualcosa del genere viene più volte formulato nel Libro dei Doveri. A Bologna il cad. Gusmini fu lo scopritore di Clelia Barbieri, a cinquant’anni dalla morte; colui che ebbe chiara la percezione del suo carisma. Giustamente papa Roncalli, tracciando la fisionomia di questo suo concittadino e con diocesano, lo definì:”ecclesiastico pieno di intelligenza e di zelo ardente, ornato di una genialità sorridente, talora ingenua, ma sempre volta a nobili cose, fisionomia schietta di figlio della Val Seriana”.
Pure la Verzeri unì forza e dolcezza: fu energica e sensibile, salda come una roccia e totalmente disponibile. E’ il segno bergamasco di questa donna, nobile di stirpe, ma tutta posta al servizio della povera gente; colta e raffinata, ma capace di condividere in tutto la condizione e la fatica dei contadini e dei braccianti. Suo padre è il nobiluomo Antonio, sua madre la contessa Elena Pedrocchi Grumelli, con una sequenza di vescovi e magistrati nell’albero genealogico. Teresa è la primogenita di una nidiata di figli: sei vivi, di cui cinque femmine – Caterina, Maria, Antonietta, Giuditta, oltre a lei – e un solo maschio, Girolamo, che diventerà vescovo di Brescia. Delle ragazze una sola si sposa, Antonietta; tutte le altre, insieme a mamma Elena, diventeranno F.S.C.G., in certo senso figlie della primogenita.
Questo dice la tempra della nostra protagonista, il suo fascino, il carisma di seduzione.
Secondo lo schema della psicologia del profondo, si potrebbe insinuare che Teresa, come primogenita, soffrì il suo ruolo instabile di vicemadre e ne portò il segno: responsabilità precoce, desolazione, rimpianto degli affetti e dei giochi della prima infanzia … La sua umanità forte, il suo stile di combattimento, il suo occhio clinico, fanno parte di questa sofferta eredità. Teresa sa esercitare il suo ruolo di guida in modo sobrio e discreto; sa stare con gli ultimi e con le personalità più elevate; è un interlocutore calmo ed disinibito, lucidissimo nella visione, sottomesso quando scatta il meccanismo dell’obbedienza alla divina volontà, ma irriducibile nel portare avanti il disegno di Dio.
Sarebbe necessario analizzare il linguaggio di Teresa attraverso uno spoglio sistematico dei suoi scritti: ”dimmi come parli, (e come scrivi) e ti dirò chi sei”. Il suo codice espressivo, simbolico e realistico, mistico e pragmatico, è proprio di una donna che sa obbedire e comandare, guidare e servire, parlare e tacere, scrivere testi di qualità e lavorare manualmente. Si realizza in lei l’armonia dei contrari: silenzio e convito, azione e contemplazione, dovere e gratuità, riesce a trarre da pochi ed essenziali principi un metodo straordinariamente duttile e aderente alle situazioni. Insegna con quello che dice, ma soprattutto con quello che è; maestra e testimone. Così vuole le sue figlie.
Vale per la Verzeri il principio espresso da uno psicologo slavo, il Tersteniak: ciascuno di noi forma un paesaggio oggettivo, che influisce educativamente a prescindere da quanto può dire in modo esplicito.
Questa figlia della Chiesa bergamasca costituì un paesaggio umano simile alle sue montagne, alle sue valli, ai luoghi aspri e fascinosi della sua terra. Qualcosa si intravede nel modello iconografico che la esprime, a modo di dottore della Chiesa, come Teresa d’Avila di cui portava il nome; ma potrebbe essere intercambiabile con la penna e il libro un umile strumento di lavoro. Direbbe ugualmente il suo emblema di nobile e laboriosa semplicità.
A ripassare il curriculum vitae, sembra che Teresa si scontri costantemente con qualcosa o qualcuno che ne ostacola il cammino. Ma vige anche qui la cosiddetta “eterogenesi dei fini”. Qualunque cosa accada, la Provvidenza orienta la bussola verso un’unica direzione vocazionale, che è mistica e pedagogica insieme. La volontà del Padre è il carisma di Cristo e dei suoi discepoli, fa convergere persone ed eventi a quell’unico fine per cui la Beata Teresa è nata e si è formata.
Ha vissuto non moltissimo, ma intensamente. Per quell’epoca, quando la media della vita era sui trent’anni circa, cinquantuno costituiscono un completo arco di esperienza. Nasce il 31 luglio del 1801, in piena era napoleonica; muore il 3 marzo del 1852, quando sventolano le bandiere del risorgimento nazionale. La sua parabola si può periodizzare in tre fasi: -dalla nascita al secondo ingresso nella Badia benedettina di S. Grata, nel 1821 – dal ’21 al ’31, anno in cui sorge la Comunità delle Figlie del S. Cuore di Gesù al “Gromo”; - dal ’31 al ’52, il ventennio che segna la maturazione del progetto e della sua definitiva consacrazione.
Fin dalle prime battute affiora la vocazione pedagogica: un istinto nativo, un segno della personalità ancora in boccio, che viene fuori nell’adolescenza come un insieme di interiorità e di attenzione agli altri, di libertà e di diaconia. Lo comprendono anche le severe monache di S. Grata, allorché la ragazza ventenne bussa per la seconda volta al Convento. Benché ancora postulante, le affidano l’educandato annesso al Monastero. Teresa diventa insegnante e direttrice.
In quel tempo il chiostro era il modello pressoché esclusivo della vita religiosa, se si eccettuano le Figlie della Carità; anche le opere educative femminili venivano affidate alle monache.. Fra coro e parlatorio la repubblica monastica faceva da ponte fra la città terrena e quella eterna. Così avviene a Bergamo e a Verona; così a Bologna con il collegio annesso alla Visitazione.
Non è facile conciliare contemplazione e missione educativa, anche perché la badessa non fa nulla per facilitare il compito a Teresa.
Incompatibilità di carattere? La personalità di questa ragazza deborda dalle strutture. Esce di nuovo, e le viene offerto il “Gromo”, un palazzotto severo, una specie di castello nella parte più suggestiva della città alta appoggiato alla roccia.
E’ l’ora di Mons. Benaglio, vero Padre e confondatore delle Figlie del S. Cuore di Gesù. Ha nelle vene sangue nobile di parte guelfa, ma riservato e alieno da intrighi. Porta una rigida armatura interiore, ma lascia alla sua figlia spirituale intatta responsabilità nel suo campo di lavoro. Si limita a svolgere un ruolo di illuminazione e guida spirituale con grande classe e stile. Quando si congederà nel ì36, in fase di decollo dell’opera, lascerà un gran vuoto. Teresa potrà ricorrere ad altri consiglieri, eminenti per santità e dottrina, ma il Padre resterà solo lui.
Dal ’31 al ’52 trascorrono anni intensi e creativi. Se la prima fase era stata prevalentamente domestica, e la seconda una dolorosa spola tra monastero e famiglia, la terza segnerà la concreta attuazione del progetto a lungo meditato nel cuore. Dà una mano a Teresa anche il Governo di Sua Imperiale Maestà Austriaca che è ancora padrona di casa nel Lombardo-Veneto.
La cultura spirituale dell’epoca parlava francese, con modelli e testi salesiani, divulgati Calla compagnia di Gesù; ma a poco a poco emergerà la linea alfonsiana, più geniale alla provincia italica …
I soliti benpensanti suggeriscono il modello della affiliazione: aggregare la fondazione del “Gromo” alle dame del S. Cuore di Sofia Barat.
Teresa sempre ossequente all’obbedienza andrà a Torino a prendere contatto con loro. Verranno a Bergamo anche le suore francesi. Ma il Governo austriaco dice di no. Teresa che si è sottoposta all’assurda sperimentazione, facendosi subalterna dell’Istituzione francese, può finalmente esprimere in modo autonomo il suo progetto. Emerge in piena luce come religiosa e come donna consacrata a Dio e all’educazione della gioventù. Si potrebbe collocare nella Bergamo ottocentesca questo emergere della donna alle responsabilità sociali come uno dei segni dei tempi che Papa Roncalli segnalò nella Mater e Magistra. Vocazione religiosa e diaconia educativa si incontrano e danno vita ad un vero risorgimento femminile. E’ sintomatico quanto la nostra protagonista dichiara, fra serio ed ironico, nella introduzione al “modo di educare le giovinette”, rivolgendosi alle Figlie del S. Cuore di Gesù; “Pensate alla grande grazia che Dio vi fece per sua pura bontà e misericordia. Voi, naturalmente, o sareste rimaste nelle vostre famiglie a maneggiare la conocchia e il fuso, o occupate in conversazioni, facendo inchini e raccontando inezie; invece, per la vostra vocazione, eccovi qui nella casa del Signore a trattare gli interessi di Dio e a spendervi per la salute delle anime. Siete scelte e destinate ad operare con Dio la vostra ed altrui santificazione in ministeri altissimi e divini”.
E aggiunge:” Se tanto è grande e onorevole il grado e la gloria della vostra vocazione, non disdegnate i pesi che vi impone; né vi siano gravosi e umilianti, per faticosi e bassi che essi siano. Ciò sarebbe scortesia intollerabile, che vi farebbe indegne del dono di Dio … L’educare gioventù porta con sé un esercizio continuo di propria abnegazione e di estrema pazienza … paragonabili a quella di Giobbe”.
Teresa ha un concetto alto e profondo della missione educativa: essa è un ministero, una chiamata totale, un impegno senza limiti. Insieme al progetto per le giovinette da educare, traccia e impersona l’immagine dell’educatrice, giovane di età, ma ancora per saggezza: immagini intimamente legate fra loro come il concavo e il convesso.
Il Libro dei Doveri nel suo insieme – le virtù teologali e morali, la pietà vera e falsa, la vita interiore e l’ascesi, gli obblighi del proprio stato, l’apostolato … -può e deve essere letto in questa chiave educativa.
Cercando se stessa in Dio, nel silenzio e nella preghiera, alla maniera di Teresa d’Avila, le Figlie del S. Cuore si aprono contestualmente al martirio dell’educazione come S. Giuseppe Calasanzio omologo di Giobbe. Perciò dovranno consolidare e levigare il proprio carattere, acquisire cultura intellettuale e manuale, apprendere la scienza e l’arte dell’educare, ministero precipuo della nuova istituzione.
Saranno addette pienamente a questa cultura, come la definisce la nostra Beata, che è l’equivalente ottocentesco dell’evangelica pesca delle anime. Piene di sapienza esse dovranno esortare, convincere, riformare, confortare … Dovranno avere il senno dei saggi della Bibbia, il tocco di grazia dei profeti, la terapia del samaritano. Severe con se stesse, ma aperte e flessibili verso il campo educativo loro affidato, uniranno un profondo senso religioso al rispetto della condizione laicale, il garbo della forma alla solidità della sostanza, il gioco e il teatro alla disciplina. In questo esercizio dell’arte delle arti, dovranno masticare amaro e sputare dolce … Teresa ha nel proprio bagaglio culturale di linguaggio francese anche il trattatello di Etienne Binet, S.J., di ispirazione salesiana: “Quel est le meuilleur gouvernement, le rigoureux où le doux?”, Parigi 1636.
L’esperienza pedagogica verzeriana, come quelle coeve, va situata oltre che datata. Ogni regione ha il suo carattere e il suo dono. Il Piemonte è ancora francofono, l’Emilia Romagna risente della cultura dominante; e così la piccola Patria bergamasca echeggia i modelli Lombardo-Veneti nell’ambito di alcune costanti della progettazione educativa di quel periodo. Sarebbe anche illuminante esplorare le subculture montane e rurali, come quella del Casale di Cologno, dove Teresa, adolescente e giovane trascorre le sue vacanze operose, facendo un po’ di tutto dall’infermiera alla casalinga, alla catechista … Frequentò le famiglie più umili, come i salotti dell’alta società. Il suo biografo, Giacinto Arcangeli, riferisce che per compiacere lo zio Conte Girolamo Grumelli, Teresa andò alla Scala di Milano. Secondo il cliscè ascetico si dice che durante tutto lo spettacolo tenne gli occhi chiusi … ma non è molto attendibile. Teresa sa di teatro. Conosce Goldoni e Molière, e ne ha assimilato i temi e i modi espressivi. In una lettera si autodefinisce “Arlecchino finto principe” e ironizza sulle donne malata immaginarie … Se necessario, scrive copioni teatrali; fa l’attrice e il regista. Traduce dal francese, ha un proprio italico stile con qualche coloritura bergamasca, ma con l’uso sofisticato di figure retoriche e di proverbi; un lessico assortito, un fraseggio nervoso, una tonalità parlata col “tu” e col “voi”, con modi verbali ricchi di soluzioni tutte sue che danno al discorso un certo fascino pieno di umanità e di calore. Nell’insieme questo modus scribendis si potrebbe definire lo stile della persuasione e della paraclesi.
Nella Bergamo pos-napoleonica c’è una primavera ecclesiale. Ne parla Pietro Braido nella sua opera: Esperienze di pedagogia cristiana nella storia” – II, sec. XVII-XIX- Roma 1980. In questa atmosfera fervida e creativa campeggia Don Luca Passi, fondatore dell’opera di S. Dorotea, che si congloberà con le Figlie di S. Fede della Beata Paola Frassinetti, dando origine alle Dorotee. L’istituzione del Passi è tutta popolare; raccoglie i ragazzi della strada per sottrarli ai ricatti della miseria e della malavita, istruirle, catechizzarli, avviarli al lavoro:un disegno che sarà sempre presente anche nella prospettiva della Beata Teresa. Il clero bergamasco le offrirà ispirazione e aiuto. E’ un clero che vive sotto l’influsso del “Collegio Apostolico”, da Maria Antonia Grumelli, zia di Teresa e perfezionato da Mons. Marco Celio Passi e dallo stesso Benaglio. Lo caratterizzano l’ascesi, lo studio della teologia e dei Padri, lo zelo pastorale e sociale. Tutti i bergamaschi ne avvertono la presenza attraverso la predicazione e la direzione spirituale. Teresa ne è beneficiaria privilegiata. La Chiesa bergamasca è passata attraverso la bufera del giuseppinismo, della Repubblica cisalpina, dell’egemonia napoleonica. Ha subito invadenze, spogliazioni, soppressioni, rimanendo sempre salda e compatta. Molte cose sono cambiate in questo periodo, ma –come afferma l’Aubert- niente è tanto cambiato quanto la qualità del cristiano medio. I è verificato un processo di responsabilizzazione tra giovani e anziani, uomini e donne. Anche l’abbigliamento, specchio dell’epoca è mutato; dalle brache settecentesche ai pantaloni tubolari, inizialmente emblema giacobino, poi pezzo di vestiario universalmente accettato. Cambiò l’immagine, ma anche il profondo della società. Tra tutti i segni di questo rinnovamento nel costume e nella vita, quello più sorprendente è la santità, dono dello spirito e risposta del popolo cristiano alla durezza delle prove. La scure ha abbattuto alberi secolari, ma ai piedi del tronco reciso nascono nuovi germogli.
In questa sinfonia di santità si inserisce Teresa Verzeri, donna forte e sapiente. Anche lei si era formata attraverso le prove. I termini (sostantivi, aggettivi, avverbi) che ne caratterizzano la struttura umana e spirituale fanno parte della famiglia della sodezza: virtù soda, sodezza di dottrina, educare sodamente e persino vestire sodamente. Il sodo si coniuga con la rettitudine che ne è l’altra faccia congeniale …
Molti hanno parlato di lei, dall’Arcangeli che è il suo storico fondamentale al Barsotti, al Donadoni. Il Barsotti ne accentua la vertigine mistica, il Donadoni ne fa una “guerriera velata”, ma credo che la nota più propria sia il binomio mistica-educazione. Su questo tema concentra l’attenzione Aldo Agazzi, che la fa addirittura precursore della pedagogia del 1900.
Suor Agnese Saba intitola la sua tesi: ‘ Una pedagogista del 1800’; Eugenio Valentini le dedica un sostanzioso studio su ‘Salesianum’ del 1952; il Pasinetti, su ‘Pedagogia e vita’ 1965 la definisce “Una educatrice dimenticata”; Pietro Braido la cataloga tra gli esponenti del metodo preventivo.
Certo è che le complesse esperienze di questa donna, gli avvenimenti interiori, gli itinerari culturali puntano tutti al traguardo pedagogico.
Teresa si pone come obiettivo la ricostruzione della persona umana nelle mutate condizioni della società. Con l’animo della contemplativa si accinge a educare. Il travagliato approccio alla sua vocazione, la stessa aridità di fondo della sua esperienza mistica, costituiscono un sacrificio di fondazione dell’opera educativa. Impressiona in lei il senso di accelerazione, il precorrere i tempi, la proiezione verso il futuro, anche il suo incessante e notturno scrivere fanno parte di questa diaconia della sapienza. In questo senso elabora i testi della sua biblioteca spirituale carmelitana, salesiana, gesuitica, patristica. Più che le citazioni esplicite, che ama intercalare negli scritti, quelle che contano come indice di mentalità sono le citazioni implicite, memorizzate e sviluppate. Nel su o archivio mentale è presente anche uno scaffale laico con scritti letterali e teatrali, e un po’ di Ippocrate e di Galeno. E’ una donna completa, figlia della sua terra e della sua gente, ma aperta ad un più vasto orizzonte culturale, in una prospettiva pratica. Possiede quel tanto di teoria che può sostenere e alimentare un progetto concreto. In lei la sapienza va di pari passo francescanamente con la sua sorella, “la pura e santa semplicità”.
Il bilancio sul retro terra spirituale e dottrinale della sua opera è largamente incompleto. Il Libro dei Doveri è specchio di una personalità forte e attrezzata, con una organica fusione del triplice strato della femminilità: la donna, la religiosa, Teresa. E’ se stessa, è una donna della sua epoca, è consacrata: Questi tre elementi fusi in unità fanno la sua sigla, il suo carisma; ed emergono a tutto campo soprattutto dove il religioso si salda con l’educativo, e l’individuo con l’ecclesiale ed il sociale.La vicenda che noi commemoriamo è un’immagine dell’universo femminile –ancora pressoché inesplorato- quale si andò delineando nella prima metà del 1800 sotto l’impulso degli eventi nel soffio dello Spirito Nel primo ottocento, come segnala il Braido, si registra una autentica inquietudine per l’idea preventiva. E’ un dato comune nel settore politico, legislativo, ecclesiale. E’ preoccupazione degli spiriti illuminati, ma ne avvertono l’esigenza anche i conservatori che hanno l’incubo dei moti rivoluzionari. Persino al Congresso di Vienna, per bocca del Talleyrand, affiora una certa disponibilità a questa domanda universale: “Ogni restaurazione –dice- non si identifica con reazione ritorno puro e semplice del passato …”.
La prevenzione ha di mira le aree umane più esposte al pauperismo, alla mendicità, alla criminalità …. Sorgono opere di beneficenza e di soccorso che, almeno in teoria, intendono attuare questa ipotesi preventiva, inquadrandola nell’arco evolutivo dalla nascita all’acquisizione di un mestiere. Nelle Chiese locali, anche ad opera di famiglie religiose vecchie e nuove, si dispiega un ampio e splendido volontariato.
Il Braido cita, quali esponenti di questa elaborazione promozionale, il Conte Petitti di Rovereto, il Barone De Gerardo, l’Abate Aperti; e per lo Stato Pontificio Mons. Morichini. Fra Bergamo e Verona si segnalano il Passi, la Capitanio, la Gerosa, la Verzeri. Queste donne provvedono a una lacuna enorme, perché l’iniziativa pubblica si occupa prevalentemente del settore maschile; l’area femminile rischia di rimanere nell’abbandono sia da parte dei conservatori che dei progressisti. Mons. Benaglio ne ha chiara coscienza e la condivide con la Verzeri chiamandola a dedicarsi al servizio privilegiato, anche se non esclusivo delle fanciulle povere e abbandonate. Il primo intervento di Teresa è schiettamente al servizio del popolo minuto, come si amava dire.
Sono giovani che vengono incontro ad altre giovani, donne che si occupano di altre donne, indipendente dal fatto che siano nobili o plebee; ma la propensione della mente e del cuore va verso quelle che hanno più bisogno.
Teresa non ama fare le cose a metà; vuol formare delle buone madri che siano esse stesse guide e maestre; perciò non si occupa della prima infanzia, ma si dedica alle piante adolescenti per avviarle alla professione e all’inserimento nella famiglia e nella società. Le apprezza culturalmente, professionalmente, oltre che religiosamente, perché reggano all’impatto della realtà. Il modello che ha davanti è quello di una donna che opera prevalentemente come madre di famiglia, ma che sa stare in società. Teresa attinge a modelli divulgati, ma li elabora creativamente. Il Binet le ha insegnato a privilegiare il dolce sul rigoroso, consapevole che in certi casi è meglio accondiscendere che frenare. Ma quando si tratta dell’essenziale, è inflessibile: non ammette falsità; non accetta che dietro una facciata per bene si celi un animo perverso; consente ai temperamenti vivaci di scatenarsi, purché sotto il carattere balzano ci sia una santità di fondo.
Il Libro dei Doveri, sotto questo profilo, va ulteriormente approfondito, per vedere oltre all’idea preventiva, quella attivistica che educa mediante il gioco e il lavoro, quella personalistica che fa il progetto educativo come un vestito su misura, quella sociale che sospinge l’individuo ad aprirsi agli altri, quella interiorizzatrice che agisce soprattutto sul piano delle motivazioni, operando una sintesi sapienziale, con grande libertà di essenzialità.
Se la pedagogista di Bergamo ha battezzato “dei doveri” il libro e la sua opera, essa non riecheggia solo un modulo classico ciceroniano o ambrosiano, ma coglie una questione cruciale della sua epoca.
Sul finire del ‘700 e del primo ‘800, infatti, si è posto l’accento sui diritti. E’ significativo, sotto questo aspetto, il romanzo di Melville, “La storia di Billy Bud”. Narra di un mozzo imbarcato sul mercantile “I diritti dell’Uomo”. Billy viene trasbordato forzosamente ad una nave da guerra, “Indomita”, come gabbiere di parrocchetto. Finirà tragicamente … Salutando la sua nave, Billy si esprime così: “Arrivederci anche a te, vecchia “Diritti dell’uomo”.
Si può presumere che un può della malinconica ironia melvilliana sia stata anticipata nel titolo verzeriano. Battezzando “I Doveri” il suo testo base, anche lei dice addio al libro ormai abusato dei diritti. Purtroppo quella che corre nelle nostre mani è la quinta edizione, corretta e agggiornata. Mons. Adriano Bernareggi, Vescovo di Bergamo, che pur era uomo di grande talento, sostiene che è stato un bene rivederne la forma: “… Lo scritto non ha speciali pregi letterali. Vi erano anzi certi modi di esprimersi, che erano un po’ del tempo e un po’ del luogo della scrittrice, che si è tenuto opportuno mutare …”.
A mio avviso la parlata originaria della prima edizione, apparsa nel 1844 rivestirebbe con più forza le intenzioni e il pensiero della Verzeri. Lo strumento linguistico fa parte del sistema educativo, nel quale conta non solo ciò che si dice, ma anche il modo con cui lo dice. Teresa sa progettare, operare, e sa anche esprimersi.
Questa gran divoratrice di libri unisce a ciò che ha letto, il vissuto e il contemplato, e li riesprime con tratti d’artista. Fiorisce l’ironia sotto forma di diminutivi(rancoretti, mormorazioncelle, malignuzze, idoletti, e così via …) di espressioni sincopate e sospese, di locuzioni idiomatiche locali …
Nella premessa del libro l’autrice esalta il contributo di Mons. Benaglio e dichiara che si è decisa a scrivere per aderire al suo desiderio; di fatto mette nell’opera tutto il proprio genio e il proprio stile. Lo fa in fretta rubando ore al sonno; ma questo non nuoce alla sua scrittura che è opera di getto, lungamente meditata Attinge alla memoria, all’esperienza, alla meditazione assidua. Madre Giovanna Grassi, nella seconda edizione, definisce il Libro dei Doveri il ritratto più fedele della Madre, lo specchio della sua vita; e Madre Ignazia Pessina nell’edizione ultima del 1952 parla di un libro cercato, letto, meditato con gioia, oggetto di investigazione, sia nell’ascesi sistematica, sia nella pedagogia scientifica. Una lettura più sollecita e sinottica del Libro dei Doveri fa affiorare nell’uno e nell’altro campo una costante attenzione al soma, alla psiche e al pneuma configurando un’antropologia maturata nel solco della tradizione biblica e patristica, ma verificata nella quotidiana esperienza educativa.
Sorprende constatare in Teresa Verzeri una conoscenza, si direbbe anticipatrice della psicologia e della psicoterapia. Essa descrive ad esempio casi di “anoressia mentale” (il rifiuto di cibo per motivi psichici); di “salutismo” non solo di estrazione molieriana; di “identificazione nevrotica” che dimostra quanto Teresa avesse cura di non confondere obbedienza –che è sacramentum divinae Voluntatis- con il plagio della personalità che è tutt’altro che segno del beneplacito del Padre.
E’ interessante che a mano a mano si prenda coscienza del valore che il sistema verzeriano ha congiuntamente nella storia della spiritualità e pedagogia. Mi pare che questo approdo dalla mistica sia il dato più significante e attuale: quello stesso che si coglie in recenti documenti pontifici, da Giovanni XXIII a Paolo VI a Giovanni Paolo II.
Nell’avventura verzeriana l’esperienza del mistero è tutta versata nella realtà esistenziale: è una donna forte, ma la fortezza è al servizio della persona umana; è una donna sensibile, ma i suoi lumi e le sue delicate perfezioni si calano nel vivo della condizione giovanile e femminile per individuarne i problemi, dare volto alla speranza, discernere il dono e la chiamata di Dio.
Aldo Agazzi ha considerato questo sistema pedagogico come più caratteristico del 1900 che del 1800. Teresa è largamente in anticipo sui tempi. Il principio base della individuazione del progetto educativo, la gradualità degli interventi, la flessibilità del metodo, l’imprevedibilità dei risultati a breve termine, l’investimento terapeutico e fiduciale: tutto questo configura un vero metodo personalistico.
Ed è in questa categoria, piuttosto che in quella del metodo preventivo, che sembra doversi catalogare l’apporto più creativo della Verzeri. Da questo si può constatare che la santità, pur radicata nella storia di un’epoca, ne trascende i limiti. L’esperienza mistica ha posto la Beata Verzeri nella storia del profondo, dove realtà e profezia, essere e divenire, il già e il non ancora, si incontrano, aprendosi ad una interdimensione tra passato, presente e avvenire.
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Ho cercato di dare al mio colloquio un pizzico di fantasia necessario per tracciare un’immagine il più possibile inedita della Beata Teresa Eustochio Verzeri, toglierla da un certo stereotipo e restituirla alla sua misura autentica e reale. Ma per compiere l’opera occorrerebbe che l’uditore che è qui nell’Auditorium della SS. Trinità benevolo e silenzioso, si mettesse a raccontare, traendo dal tesoro di famiglia cose vecchie e cose nuove.
La mia conversazione, sotto certi aspetti provocatoria, vuole offrire un invito alle Figlie del S.Cuore di Gesù, perché non commissionino ad altri la rievocazione di colei che ha dato origine al loro Istituto. Siete voi il documento vivo della Beata Verzeri e della sua tradizione educativa e spirituale. Io vorrei che invece di far scrivere la vita ad illustri personaggi, la scriveste voi, perché Teresa è la vostra Madre. Dipingerne l’icona è vostro compito: res vestra agitur. Qualche abile artigiano potrà intagliarne la cornice, ma sta a voi disegnarne l’immagine. Il Signore ha voluto, nel suo disegno provvidenziale, che non possiate più disporre della penna vivida di Suor Maria Cristina. Questo soggetto si addice alla sua sensibilità e al suo estro artistico, ma forse anche il suo martirio si inserisce nella testimonianza viva delle Figlie del S. Cuore di Gesù, che è primavera dello spirito germogliata da terra arida nella totale adesione alla volontà di Dio.
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Bologna, 30-11-1981
Luciano Gherardi