Notiziario da Bangui n° 10 – 25 Marzo 2014

Carissimi Amici,
eccomi ancora una volta nella vostra casella di posta elettronica con nuove notizie dal fronte di Bangui. L’espressione ‘fronte’ non è forse troppo esagerata, se penso ad una delle ultime avventure che ci è capitata, proprio pochi giorni dopo avervi inviato la mia ultima lettera.
Nella seconda metà del mese di febbraio sono venuti a trovarci padre Emilio, il padre Vicario del nostro Ordine, padre Marco, il nostro provinciale, e fra Claudio, mio compagno di noviziato. Nonostante l’insicurezza, e con molto coraggio, i nostri confratelli sono riusciti a visitare tutte le nostre cinque missioni, attraversando il Centrafrica in macchina e in aereo, dormendo in alberghi di fortuna, distribuendo parole e generi di conforto. Non potete immaginare come la loro visita ci abbia fatto piacere e come la loro semplice presenza ci abbia rincuorato e permesso di sperimentare, ancora una volta, la vicinanza di tutti i confratelli e le consorelle del nostro Ordine. Qui al Carmel di Bangui i nostri ospiti sono arrivati con un volo dell’ONU e la loro visita è stata breve ma intensa. La mattina della partenza li abbiamo accompagnati all’aeroporto di buon’ora. Con me sono venuti anche fra Felix, fra Martial e André, il nostro autista tutto-fare. A meno di 1Km dall’aeroporto, costatiamo che la strada è interrotta da barricate e da alcuni pneumatici in fiamme. Un giovane grida verso di noi: “Dove credete di andare? Qui si muore tutti!”. “Parla per te, caro il mio anti-balaka!”, vorrei rispondergli. Ma, per fortuna, i nostri ospiti non conoscono la lingua locale. Siamo costretti a fare marcia indietro e cerchiamo di raggiungere l’aeroporto da una strada laterale. Vorrei tanto approfittare della situazione per prolungare il soggiorno dei miei confratelli, ma non posso permettermi di fargli perdere l’aereo. Lungo la strada attraversiamo una zona controllata da un grande numero di anti-balaka. Arriviamo infine all’aeroporto e, dopo aver superato il check-point dei militari francesi, raggiungiamo il parcheggio. Mentre scarichiamo i bagagli, cominciamo a sentire i primi spari. Ci precipitiamo al check-in. Il comandante dell’aereo informa che la partenza è anticipata, anche se dovesse partire con due soli passeggeri. Le formalità si svolgono rapidamente. Saluto i miei confratelli e il Vicario mi sussurra: “ Federico, penso sia bene che attendiate un po’ in aeroporto prima di ripartire”. Mai l’obbedienza mi è stata più facile. Partiti i nostri tre confratelli, ci consultiamo sul da farsi. Sono le 8 del mattino. Un proverbio, di quelli tramandati in latino dal buon padre Nicola, offre tre preziosi consigli di sopravvivenza, utili anche in casi del genere: “Nella vita è bene stare sempre davanti ai buoi, dietro i cannoni e lontano dai superiori”. I buoi sono al sicuro nella stalla del convento. I superiori sono anche loro al sicuro sull’aereo e tra poco saranno veramente lontano. Restano i cannoni. Ci voltiamo e, nel parcheggio dell’aeroporto, vediamo schierati davanti a noi una dozzina di carri armati francesi. Quindi, almeno per ora, siamo giusto dietro i cannoni. Pochi metri più in là, dalle vetrate dell’ingresso dell’aeroporto, osserviamo, attoniti, la guerra in diretta. Gli spari si susseguono senza tregua e colonne di fumo si alzano lungo la via di accesso principale all’aeroporto. La gente fugge.

Donne e bambini invadono l’aeroporto. Ad un certo punto i cecchini francesi, posizionati sul tetto dell’aeroporto cominciano a sparare pure loro… sopra le nostre teste. I colpi sono fortissimi. Ci sdraiamo per evitare che ci raggiunga qualche pallottola vagante. Dopo un po’ di tempo, riteniamo che sia più prudente mettersi dietro un muro in cemento, piuttosto che dietro le vetrate. Provo ad alzarmi, ma il rumore di una mitragliatrice mi fa rimbalzare per terra. Tutti i bambini si mettono a ridere gridando: “Mounjou a kwi! (L’uomo bianco è morto)”. “Mounjou a kwi ape (L’uomo bianco non è morto… e non ne ha nessuna voglia), rispondo ai miei simpatici compagni di avventura. Riusciamo comunque a raggiungere una posizione più riparata. Ci sdraiamo, mentre gli spari continuano per qualche ora. Telefoniamo ai nostri confratelli assicurandoli che stiamo bene e chiedendo se, dalla radio, riescono a capire cosa stia succedendo. Ma, a quanto pare, loro ne sanno meno di noi. Per occasioni del genere, il Manuale del carmelitano perfetto, che per fortuna non esiste, ma questo paragrafo tutti lo conoscono a memoria, è perentorio: “Nulla ti turbi. Nulla ti spaventi. A chi ha Dio nulla manca. Dio solo basta”. Provo a pregare, ma non ci riesco. Sparo solo qualche Ave Maria. Mi viene spontaneo ringraziare il Signore perché, dopo aver accolto dei profughi, per qualche ora sono profugo anch’io; e ho la grazia di vivere quella precarietà che la mia gente vive da mesi e di condividere questo momento con i miei confratelli. Verso mezzogiorno gli spari sembrano cessare e i carri armati si allontanano. Saliamo in macchina per tentare di ritornare a casa. Al check-point i militari francesi ci incoraggiano: “Ma dove crede di andare, mon père? Sparano ancora dappertutto. Se vuole proseguire, è a suo rischio e pericolo”. Ovviamente desistiamo. Facciamo marcia indietro e proviamo ad immaginare il resto della giornata. Come e quando torneremo a casa? Passeremo qui la notte, chiedendo di riservare per noi una tenda tra i centomila profughi dell’aeroporto? Dopo circa un’ora, mentre stiamo cercando di mangiare qualcosa, ci accorgiamo dell’arrivo di un’ONG che conosciamo bene. Organizzano un convoglio per evacuare alcuni colleghi rimasti bloccati come noi. Chiedo se possiamo unirci anche con noi. Accettano. In pochi secondi il convoglio è formato e, velocissimi, abbandoniamo l’aeroporto. Lungo il tragitto preghiamo tutti i santi del paradiso perché ci proteggano. Attraversiamo quartieri deserti, per i quali non passavamo da mesi, perché considerati ‘zona rossa’. Le case sono distrutte o incendiate, i tetti in lamiera divelti, nessun negozio, pochissime persone e carcasse di macchine: Gesù mio, com’è brutta la guerra! Alle 14 siamo finalmente in convento. Riabbracciamo i confratelli. E poi faccio una breve visita in chiesa per ringraziare il Signore di averci fatti ritornare a casa sani e salvi.
La vita del nostro campo profughi prosegue al ritmo delle stagioni e dei tempi liturgici. In occasione del Mercoledì delle Ceneri i nostri fedeli hanno superato, quanto a numero, zelo e devozione, gli abitanti di Ninive dopo la predicazione di Giona. Fino a pochi giorni fa il numero dei nostri profughi si era stabilizzato intorno ai 5.000. Ma, dal momento che in diversi quartieri di Bangui si spara ancora, la gente, anche quella che aveva provato a rientrare, spesso è costretta a ritornare da noi. Attualmente potrebbero essere intorno ai 15.000 (il 40% dei quali sotto i 15 anni). A Bangui i siti che accolgono profughi sono ancora 59, alcuni dei quali con molta più gente di noi. Queste cifre vi dicono le dimensioni e la complessità della situazione che tiene prigioniera la città. Pensavamo di risolvere tutto per Natale… ed ora siamo quasi a Pasqua.
Per questo motivo la nostra comunità, dopo tre mesi di emergenza, è stata costretta a fare un discernimento. Sul tavolo del capitolo conventuale quattro ipotesi. La prima: mandare a casa tutti i nostri profughi. La seconda: andarcene via noi e lasciare il convento ai profughi. La terza: aspettare che i profughi se ne vadano per poter riprendere la nostra vita normale. La quarta: provare a fare i frati con migliaia di profughi attorno al convento. La prima e la seconda ipotesi non le abbiamo mai prese seriamente in considerazione, se non durante la ricreazione o quando siamo un po’ stanchi. La terza è stata scartata perché dovremmo aspettare troppo, nessuno sa fino a quando. E poi avevamo una voglia matta di tornare a fare i frati a tempo pieno. La quarta ipotesi, quindi, è stata votata favorevolmente all’unanimità. Abbiamo così raccolto la sfida di fare i frati in un convento con annesso un campo profughi… certi della benedizione di Papa Francesco e dell’approvazione del Padre Generale.
Per questa ragione siamo stati costretti, anche se a malincuore, a ridimensionare il nostro piccolo ospedale d’emergenza, trasferendolo in una struttura all’esterno. Inoltre, anche se non è stato facile dare lo sfratto ad un centinaio di bambini, con solo una settimana di preavviso, abbiamo ripreso possesso della nostra Chiesa. È stato un po’ emozionante risentire il suono delle nostre voci nel luogo abituale della nostra preghiera. Il confratello sacrestano, scherzando, ha suggerito di fare una sorta di rito di purificazione. Ma i poveri non profanano un bel niente. Anzi è stata forse la loro presenza che ha come consacrato e reso ancora più bella la nostra chiesa. Rientrare nella nostra chiesa è stato come entrare nella stiva di una nave o nel ventre di una madre che ha salvato la vita a centinaia di bambini nel naufragio della guerra. E poi, proprio nella nostra chiesa, era nato Jean de la Croix, il primo bambino venuto al mondo al Carmel il 13 dicembre 2013.
Abbiamo anche ripreso le nostre attività apostoliche. Solo fra Jeannot non ne ha voluto sapere di riaprire il gruppo Santa Teresina che insegna a pregare ai bambini dai 3 ai 7 anni. Teme, giustamente, di avere troppi nuovi clienti. Anche il nostro gruppo vocazionale ha qualche nuovo candidato. Alcune settimane fa, un giovane tra i nostri profughi, di nome Alain, chiede di parlarmi. Avevo già notato la sua assidua partecipazione alla messa mattutina. Ci sediamo e, senza troppi preamboli, Alain espone le sue intenzioni: “Mon père, vorrei essere come voi”. Poi, come per assicurarmi di aver ben capito che è la preghiera il cuore pulsante del Carmelo, continua:“Potrei avere anch’io la vostra Bibbia con le preghiere (cioè il breviario)? Quando vi mettete a cantare in Chiesa, riesco solo a dire ‘dans les siècles des siècles’”. Ogni volta che un giovane apre il suo cuore ad un sacerdote e manifesta il desiderio di consacrarsi a Dio, al di là di come finirà un giorno la vicenda, c’è sempre come un reciproco brivido d’intesa e di complicità. Il giovane, fatta la sua dichiarazione, pensa di avere già fatto la professione solenne. Il sacerdote, più prudente, pensa che sia solo questione di fissarne la data.

Ora: il discernimento è cosa difficile a tutte le latitudini, ancor di più da queste parti. Quindi è bene non farsi illusioni. Ma, pensando al modo in cui Alain ci ha conosciuto, mi è venuto in mente un capitolo della regola di san Benedetto. Per colui che chiede di essere introdotto in monastero, la regola esige che il superiore metta alla prova le sue motivazioni, obbligandolo a sostare davanti alla porta del convento, per almeno quattro o cinque giorni, prima di essere accettato. Alain si trova davanti alla porta del convento da più di tre mesi… e quindi abbiamo ritenuto che fosse sufficientemente pronto per condividere un po’ di più la nostra preghiera e il nostro lavoro. E scoprire cosa faranno mai questi giovani frati quando non sono in giro tra le tende dei profughi. Dopo Alain si è presentato anche Jon… Il futuro di questi giovani, e di tanti altri, è ora nelle mani di Dio e delle vostre preghiere.
Gli studenti, cioè i sei confratelli più giovani della cui formazione sono responsabile, hanno ripreso gli studi di filosofia e teologia dopo tre mesi di vacanza. Ne avrebbero meritati altri tre per quanto hanno lavorato, ma anche loro avevano voglia di fare una cosa così normale come andare a scuola. E così, se al mattino disquisiscono di etica e metafisica, al pomeriggio guidano il trattore, distribuiscono riso e fagioli, risolvono con grande pazienza piccole discussioni che nascano tra i profughi. Anche il sottoscritto è ritornato a scuola, ma solo per un giorno. Tutti i responsabili dei siti di Bangui sono stati infatti convocati per una giornata di formazione. Ed io, che speravo di fare un dottorato in patrologia, mi sono ritrovato, dopo tre mesi di pratica e un giorno di teoria, con un diploma honoris causa in‘Gestione e coordinazione di un sito di profughi’ conferitomi niente poco di meno che dall’Alto commissariato dell’ONU per i profughi. La vita riserva sempre delle belle sorprese!
Vi ringrazio per l’attenzione con cui seguite le puntate della nostra avventura. Quello che all’inizio non era che un’e-mail inviata ad alcuni confratelli per informarli che avevano a cena qualche ospite in più, si è trasformato in un bollettino di guerra e di pace che sta facendo il giro del mondo. Spero di non annoiarvi troppo. Ma è anche vero che, se tardo a scrivere, dopo qualche giorno qualcuno comincia a chiedermi se tutto procede bene.
Un grande grazie, infine, a tutti quelli che, oltre che con la preghiera e l’amicizia, hanno voluto manifestare in modo concreto e generoso la loro vicinanza. Anche se molti di voi ci sono quasi sconosciuti, siete, ogni sera, nelle nostre preghiere.
Padre Federico, i fratelli del Carmel e i nostri ospiti

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