Scrivo guardandomi attorno; sono le cose, i fatti, i volti a chiamare le parole. Vivo in Albania ed è questa terra ad evocare pensieri e parole sul Natale, la festa della Parola diventata Carne, umanità, storia. Partirei dalla fine, come quando ci si racconta della vita tra vicini, seduti a tavola, e poi si risale la china degli anni, fino ai ricordi di quando si era bambini, con le foto appena nati, anche noi come in un presepio.
La fine, in questa terra di martiri e persecuzioni, è una bella pala d’altare con la deposizione di Cristo dalla Croce. Si trova nella chiesa dei Francescani, a Scutari, e chi ci guida nella visita sempre osserva che “anche l’Albania ora ha smesso di soffrire”, c’è finalmente un po’ di pace, la croce ha lasciato andare questo corpo piagato e lo restituisce al riposo della terra, da cui non può che rinascere vita.
Alla pienezza della vita ritrovata abbiamo di certo pensato il 21 settembre, giorno in cui Papa Francesco ha visitato l’Albania. Nella cattedrale di Tirana, nel pomeriggio, abbiamo condiviso con lui un ricchissimo momento di spiritualità e di intensa commozione, introdotto dalle testimonianze di due religiosi perseguitati dal regime comunista. Don Ernest Troshani, 84 anni, ha raccontato in breve il suo arresto, la
sua prigionia durata diciotto anni, di come era riuscito a scrivere sul muro della cella “per me vivere è Cristo”, per avere anche davanti agli occhi il senso della sua vita e, forse, di una imminente morte, dopo anni di torture. Dopo di lui, suor Maria Kaleta, religiosa stimmatina di 85 anni, ha testimoniato la sua gioia per la vocazione e le sue sofferenze dopo la soppressione del convento; ha conservato la fede sostenendo quella degli altri. Condannata ai lavori forzati, ha rischiato spesso la vita perché battezzava di nascosto i bambini , su richiesta delle madri.
Entrambi hanno salutato il Papa inchinandosi davanti a lui, forse per baciargli le mani, ma è stato Francesco ad abbracciarli, a piegarsi davanti a loro, e poi si è asciugato spontaneamente le lacrime, per esclamare subito dopo “oggi abbiamo toccato i martiri!”. Nella breve omelia, durante il vespro, ci ha spiegato che si può sopportare la tribolazione soltanto perché il Signore ci consola, “ umilmente, anche nascostamente. Consola nell’intimità del cuore e consola con la fortezza”.
La storia del popolo albanese è parabola della vita di tutti, intrisa di dolore, anche di gioia, di incerti tentativi a farsi coraggio, di provvidenziali spinte in salita, di consolanti incontri che lasciano un pensiero convincente, una parola che rassicura, su cui tornare quando c’è un attimo di pace. Morte e vita duellano sempre e noi agogniamo uno spiraglio di senso: questa è consolazione, non tanto e non solo sopportare il peso della debolezza e del male, quanto intuirne un significato, solo un frammento, un lampo transitorio che ridisegna i contorni della realtà e della storia. I santi si uniscono a Cristo e ci insegnano la fede; ci arriveremo anche noi – i briganti - , e intanto ci lasciamo portare dal “senso della solidarietà”: non amiamo la tribolazione, ma possiamo accoglierla facendo corpo con i milioni di umani attraversati dalle stesse prove o da altre più grandi. Può alzarsi la nostra preghiera per una umanità che, portando insieme i pesi, sia finalmente più forte, più attrezzata e paziente. Diremo come tutte le madri e i padri del mondo: “meglio a me che a mio figlio!”, e dalla nostra carne sarà generata altra vita.
Torniamo a parlare di nascita e quella del Figlio di Dio, il Natale, può diventare la nostra consolazione. Facendo proprio il destino umano della tribolazione, Dio assume con noi la parte più dura del vivere, le umiliazioni e le solitudini, il corpo che cede, la paura di morire, le beffe di chi era amico, l’irriderci dei nemici. Lascia da parte il suo vivere da Dio e prende parte all’oppressione di tutti, il solo che poteva non farlo.
Ci consola umilmente, già nascendo bambino.
Sr Gianna Lessio fscj